Il nome di Adam McKay non c’è nei titoli di coda di Painkiller, non avendo nulla a che fare con la miniserie Netflix, ma è difficile non sentirne l’influenza. È presente nel ritmo incalzante, nelle metafore, nella scelta di affidare la narrazione dell’intera vicenda a un personaggio che afferra il pubblico per le spalle e lo spinge all’azione. E c’è anche nei difetti. Painkiller, creato da Micah Fitzerman-Blue e Noah Harper, vuole attirare l’attenzione sul lancio dell’OxyContin e sulla conseguente emergenza oppioidi. Ma si spinge anche oltre, nonostante lo stile sia talmente appariscente da distrarre, a volte, dalla sostanza.
Ognuno dei sei episodi di un’ora (tutti diretti da Peter Berg) si apre con un narratore che legge una dichiarazione di non responsabilità sul fatto che la serie si basi su eventi reali, pur incorporando elementi drammatici. “Ma la mia storia non è inventata”, aggiungono di volta in volta, condividendo ricordi e foto di persone care uccise dagli oppioidi. Le conseguenze di questa storia sono reali e devastanti: un’osservazione efficace come un pugno allo stomaco. Un “colpo” probabilmente necessario, perché altrove Painkiller sembra combattuto tra esigenza didattica e desiderio di intrattenere.
Eroina in piccole, graziose pilloline
I fatti, tratti dal libro Pain Killer di Barry Meier e dall’articolo del New Yorker di Patrick Radden Keefe sulla famiglia che ha costruito questo impero del dolore, sono senza dubbio strazianti. Negli anni ’90, Richard Sackler (Matthew Broderick) presenta il suo nuovo farmaco miracoloso, l’OxyContin. Il successo della pillola risolleva le sorti della Purdue Pharma, l’azienda ereditata dal defunto zio Arthur (Clark Gregg), e rende i Sackler ricchissimi. Ma il successo arriva a un prezzo: quello dell’attuale emergenza delle droghe, dopo che innumerevoli pazienti, rassicurati dai loro medici che l’OxyContin non conducesse alla dipendenza, si sono ritrovati dipendenti da quella che un poliziotto frustrato definisce “eroina in piccole, graziose pilloline”.
Forse temendo di annoiare o di deprimere lo spettatore, Painkiller seppellisce queste dure verità in una valanga di sequenze immaginarie, montaggi rapidi e una selezione molto banale di musiche (Psycho Killer per indicare il male, I Put a Spell on You per la dipendenza). Presenta tuttavia, con ambizione, anche un quadro molto completo dell’intera debacle dell’OxyContin. Shannon (West Duchovny) è un’ingenua rappresentante alle dipendenze di Britt (Dina Shihabi), una giovane Jordan Belfort in minigonne attillate; Glen (Tyler Kitsch) è un integerrimo padre di famiglia la cui vita precipita dopo che gli viene prescritto il farmaco per un infortunio alla schiena. Un’interpretazione emotiva, quella di Kitsch, e sopra le righe quella di Shihabi, che purtroppo non aggiungono moltissimo al copione.
Il più importante dei personaggi immaginari di Painkiller è Edie (Uzo Aduba), un’investigatrice federale che ha partecipato al tentativo di citare in giudizio Purdue Pharma all’inizio degli anni 2000. Nel 2019 viene coinvolta in un altro tentativo di azione legale, ed è la sua intervista a incorniciare la biografia del clan Sackler, il debutto dell’OxyContin e l’inizio della crisi degli oppioidi. Aduba infonde una rabbia così sentita e un dolore così palpabile – e Broderick una freddezza talmente terribile – che non c’è rischio che Richard possa essere scambiato per qualcosa di diverso da un cattivo. Alla richiesta di una “storia originaria, alla Batman” per giustificarne le azioni, Edie risponde: “Non me ne frega niente delle motivazioni. Non importa perché l’ha fatto”. Painkiller si preoccupa però delle sue intenzioni, o almeno della sua psiche, tanto che assistiamo a lunghe conversazioni immaginarie tra Richard e il suo defunto zio.
OxyContin, storia di un farmaco legale. O quasi.
Il fatto che gran parte di ciò che Purdue Pharma ha fatto non fosse tecnicamente illegale, come sottolinea Edie, rende la comprensione del come e del perché sia potuto accadere ancora più importante. Painkiller spiega come i Sackler abbiano saputo sfruttare le falle del sistema, tra cui gli uffici di controllo che non dispongono di risorse sufficienti per esaminare adeguatamente le richieste presentate. Impariamo come una frase senza pretese come “si ritiene” possa diventare insidiosa, se applicata a un prodotto pericoloso come l’OxyContin: il farmaco viene promosso come sicuro sulla base del fatto che il suo rivestimento “si ritiene” riduca il rischio di abuso, anche se, come fa notare Edie, non viene mai specificato da chi sia “ritenuto” tale. E la strategia di marketing della Purdue è micidiale, con eserciti di fotogenici rappresentanti a incitare medici corruttibili nel prescrivere ai pazienti dosi sempre più elevate del farmaco.
È spaventoso assistere alla tragedia in modo così crudo, anche se molti dei fatti – grazie ai tanti servizi sull’OxyContin e sulle sue conseguenze – sono noti (si veda, ad esempio, la serie Dopesick di Hulu, che condivide la struttura discontinua di Painkiller, ma con un approccio più cupo e, in definitiva, più persuasivo). Data l’importanza dell’argomento, è difficile biasimare del tutto i creatori dello show per aver utilizzato tutti gli strumenti a loro disposizione per far sì che il pubblico capisca bene la situazione e il quadro in cui si è potuta verificare.
Painkiller, la recensione
Painkiller non si accontenta di mostrarci Richard che vagheggia una medicina le cui conseguenze sappiamo benissimo che saranno catastrofiche: lo fa annunciare a Edie come “la nascita di una cattiva idea”, per sottolineare questa affermazione con un montaggio di bombe atomiche che esplodono. Non gli basta lasciare che Edie descriva la pillola come il “sacramento” di Richard, quando può mostrarci Richard che distribuisce capsule d’oro come se fossero ostie per la comunione. Non si corre il rischio di distrarre il pubblico: una scena di Glen che se la fa addosso viene riproposta pochi minuti dopo all’interno della stessa puntata come flashback, nel caso in cui qualcuno se la fosse persa la prima volta che è passata.
Se qualche vezzo registico può servire ad attirare l’attenzione sulla causa, tuttavia, troppi virtuosismi possono sopraffarla. Guardare Painkiller è estenuante, e non solo perché è sconvolgente vedere ciò che i Sackler sono stati in grado di fare. L’enfasi dello show sui colpi di scena va a scapito di personaggi credibili, di un’analisi più ricca di sfumature e persino della risonanza emotiva; ci si chiede quanto avrebbe potuto fare di più e meglio lo show, se non avesse speso gran parte del suo tempo e delle sue energie semplicemente cercando di convincerci a guardarlo. Non c’è dubbio che il nucleo narrativo di Painkiller valga la pena di essere visto e conosciuto, e il suo messaggio debba essere ascoltato. Ma è un messaggio racchiuso sotto a così tanti strati che, alla fine, è difficile arrivarne al cuore.
(Traduzione di Pietro Cecioni)
THR Newsletter
Iscriviti per ricevere via email tutti gli aggiornamenti e le notizie di THR Roma