La recensione di Dostoevskij è uno di quei compiti che un po’ ti schiacciano, quasi quanto farlo deve aver meravigliosamente terrorizzato i fratelli D’Innocenzo. Perché un’idea così complessa e potente, così fragile e dolente come il suo protagonista, così lacerante e delicata, così piena di male fisico e d’animo ma anche di luce soffocata è di quelle che impegnano ogni cellula di te, ogni neurone. Come autore e come spettatore. Che ti entusiasmano e ti annichiliscono, che sanno farti sentire fuori posto, sporco, ma anche dentro un capolavoro, pieno di ammirazione e stupore. Da vedere al cinema, dove Vision Distribution dovrebbe portarlo, a giugno, diviso in due, prima della programmazione televisiva autunnale.
Dostoevskij prima che una serie, è una sfida dei gemelli D’Innocenzo: a chi l’ha ideata, a chi la interpreta, a chi la guarda. È una sfida, ma questa ormai è un’abitudine della giovane cinematografia dei due gemelli, al ritmo usuale dei racconti mainstream ma anche di quelli sedicenti indipendenti, è l’ennesimo tentativo, riuscito, di fare un classico che sia modernissimo, è la capacità unica di pescare nel loro bagaglio culturale, letterario e pittorico ma anche televisivo e cinematografico.
Dostoevskij è True Detective scritto dallo Sheridan de I segreti di Wind River e guardato dall’occhio deformato e deformante di un Escher, peraltro esplicitamente citato in una bellissima ripresa, quasi catastale, di un palazzo fondamentale per lo sviluppo della storia.
La trama della serie tv dei fratelli d’Innocenzo
Enzo Vitello (interpretato da un superlativo Filippo Timi) è un detective ossessionato da un serial killer, che con i suoi uomini ama chiamare Dostoevskij, per l’abitudine di lasciare sulla scena del delitto lettere scritte in stampatello quasi infantile, ma ordinatissimo, dotte e impietosamente fredde. Non è la sua unica ossessione, ne ha un’altra che lo ha corroso, nell’animo e nel corpo. L’indagine sull’assassino è uno specchio che riflette il dolore infinito e devastante di questo poliziotto, che a sua volta è il lato oscuro di una società, di una comunità senza più riferimenti.
Dostoevskij
Cast: Filippo Timi, Carlotta Gamba, Gabriel Montesi, Federico Vanni, Simon Rizzoni, Tommaso Sacco
Regista: Damiano e Fabio D'Innocenzo
Sceneggiatori: Fabio e Damiano D'Innocenzo
Durata: 291 minuti
Attorno a lui l’amico e capo, altrettanto disperato ma più rassegnato (Federico Vanni, bravissimo), la figlia (Carlotta Gamba, senza di lei nulla sarebbe così credibile e lacerante), una nemesi con lo sguardo feroce e il volto vuoto (Gabriel Montesi, a cui tocca il ruolo più difficile e anch’esso necessario, potentissimo). E tanti, tanti protagonisti di scena che arrivano davanti a noi e con poche immagini riempiono la storia.
La recensione di Dostoevskij
Si fa davvero fatica a non pensare al corpus cinematografico intero dei fratelli D’Innocenzo disunito da questa serie. Perché Dostoevskij parla e cita e risponde a tutte le altre loro opere (una piscina coperta, inquadrata per un attimo, a raccontare quell’acqua stagnante e borghese presente nel loro capolavoro Favolacce e nella Latina di America Latina), perché ne è il coronamento, con un adulto adolescente che sembra il prototipo assoluto di Elio Germano (Vitello) o del padre vacuo di uno dei protagonisti de La terra dell’abbastanza (il giovane poliziotto suo rivale, Fabio Bonocore), di Carlotta Gamba, la dolce e ferita e redenta perduta Ambra, che potrebbe venire da ognuno di quegli universi ma che qui urla tutto il suo talento da un profondo nord perso nel tempo e nello spazio.
C’è una linea d’ombra nella mente, nelle penne e negli occhi dei due gemelli che è il luogo infernale in cui ballano i loro protagonisti, spezzati dentro dal male, in eterno combattimento con il vuoto, con i loro corpi che cercano ciò che non possono, devono trovare. La percorrono senza paura di andare dove altri neanche immaginano.
Il cast artistico e tecnico di Dostoevskij
Tutto è diverso e rivoluzionario, nel loro cinema, in questa serie.
I ritmi: ha una musica (a proposito, straordinario il lavoro di Michael Wall, così come quello alla fotografia di Matteo Cocco) interna, Dostoevskij, una cadenza, che è unica. Dalle prime due puntate, quasi immobili, insopportabilmente impietose nell’inquadrare un mondo e un protagonista che sembrano incastrati in un orrore quotidiano e quasi squallido, alle successive quattro, che accelerano, derapano, vanno in testacoda fino all’imprevedibile finale, che sembra preso di peso da altrove, ma un altrove coerente e perfetto rispetto a quello che si è visto.
La scrittura: aulica e a tratti ironica, ma di un’ironia glaciale, quasi nordica, che ti fa sorridere mentre il tuo corpo è teso, e che tira fuori dalla poetica dei due registi qualcosa che finora forse avevamo intuito all’esordio e in qualche intervista. C’è il romanticismo feroce e quasi violento di Sheridan, che parla di amore e morte, ma non sai mai quando e quanto e come. E spesso ti parla di entrambi, o ti parla di uno schiaffeggiandoti con l’altro.
La regia, cupa e epica, ma anche pittorica come mai prima, probabilmente nell’intera storia del cinema italiano, ambiziosa e pure però obbediente a un genere specifico e che pretende i suoi schemi, quello del thriller, dell’animo e poliziesco.
Il protagonista, un maestoso Filippo Timi
Il montaggio, di Walter Fasano, che sembra avere tre ritmi, diversi tra loro in modo radicale, e pure omogenei l’uno all’altro e con una rara capacità di aderire alla regia e ai suoi movimenti da apparire al contempo determinante e invisibile, così come Filippo Timi, quasi sempre in scena e nonostante questo al massimo della cura, capace di interpretare nel dettaglio ogni momento. Il modo in cui prende la luce e il buio, quasi teatralmente, sentendoli addosso, i suoi movimenti impercettibili del corpo e del volto, la capacità di scavarsi dentro, anche fisicamente, e portarci nella sua ossessione, nel suo sacrificio estremo, nella carneficina della sua anima e del suo mondo, il suo galleggiare nella follia, domandola e facendosene sottomettere in ogni secondo, contemporaneamente, rende la sua una delle performance attoriali più belle e complete mai viste.
Proprio in Filippo Timi – e in Carlotta Gamba, che ne è degna compagna, con quegli occhi che piombano nell’ombra più nera mantenendo sempre almeno un barlume di luce – si intuisce il grande pregio del cinema dei Fratelli D’Innocenzo, quello di essere materia e astrazione, di saper scenderti nella carne e un’attimo dopo volare nell’in(de)finito, essere Dostoevskij nella più profonda essenza letteraria e umana di ciò che quell’autore meraviglioso e irripetibile ci ha restituito.
E quando scopri che Sky (la serie Sky Original è prodotta da Sky Studios e Paco) ha chiesto loro una serie noir e loro in 10 minuti hanno immaginato plot e finale, capisci che è perfettamente coerente con la lunga lavorazione e la complessità, perché Dostoevskij è intuizione fulminante e raffinatezza e complessità formale allo stesso tempo.
E di questo dobbiamo ringraziare Damiano e Fabio D’Innocenzo, i nostri demoni di Tor Bella Monaca.
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