“Sono convinta che se noi andiamo tanto in terapia è proprio perché loro non ci sono mai stati”. Se le si chiede cosa ne pensa della generazione “matura” che spesso ha da ridire sulle fragilità e il desiderio dei giovani di una salute che sia tanto mentale quanto fisica, Nicole Rossi non le manda certo a dire.
Nata a Roma nel 2001, la ventitreenne protagonista della sesta stagione di Skam ha imparato presto a chiedere aiuto, quando a diciotto anni ha cominciato a soffrire di attacchi di panico, e ha cercato di spiegare anche alle sue nonne perché è importante andare da uno psicologo.
“I nostri nonni sono stati cresciuti con l’idea che la sofferenza che provavano dovevano tenersela dentro, che dovevi lavorare e costruirti una famiglia” afferma. “Questo rendeva inutile anche solo l’idea di avere delle pretese. Non si ponevano certe domande, poi però ti raccontano delle storie e ammettono di essere stati male. Ma se i genitori, e i genitori prima di loro, continuavano a sminuire quel dolore, ci credo che finisci per pensare che è inutile, che devi solo essere spronato. Ma vedi che se non ci fossero stati solo tre psicologhi in croce e non fossero costati una fortuna, allora come venivano su meglio”.
Anche per la sua Asia, che interpreta nella serie Netflix, ci vorrà del tempo prima di ammettere di avere un problema. Un’anoressia nervosa in cui riversa i tentativi di preservare una scuola dalle derive fasciste, di essere la leader del suo collettivo e di mantenere una relazione a distanza. Asia cerca il controllo, ma non sembra trovarlo. O meglio, crede di averlo trovato, ma sta solamente mentendo a se stessa. “Fortunatamente quando ho cominciato il mio cammino terapeutico ho sempre avuto una rete di conforto”, ha raccontato basandosi sulla sua esperienza personale, distante da quella del personaggio, ma vicina nell’esigenza di riconoscere il bisogno di un supporto. “Nessuno dovrebbe portare dentro un dolore tanto grande”, e – a volte – è una serie tv a insegnarlo.
Passano gli anni, cambiano i protagonisti, ma Skam riesce ancora a parlare di ogni generazione con cui sceglie di confrontarsi. Come ci riesce?
Qui posso rispondere da fan. Nasco come spettatrice della serie, quindi so l’effetto che ha avuto su di me e i ragazzi della mia età. Il pregio di Skam è aver sempre posto attenzione su argomenti centrali nel mondo dei ragazzi, ma non solo. Proprio l’altro giorno sono stati rilasciati i dati su quante persone soffrono di disturbi alimentari. Per questo siamo anche scesi in piazza per cercare di rinnovare i fondi a disposizione e non lasciare che la tematica passi in secondo piano.
Un linguaggio trasversale?
Sì perché la vera forza della serie non è parlare di giovani, ma di giovinezza. È una finestra aperta su una quotidianità senza fronzoli, che viene mostrata in maniera diretta, e non ha paura né di essere fisica, né silenziosa. Non vuole nemmeno intrattenere per forza. Si prende il suo tempo. Come Asia, il mio personaggio, che ha bisogno di tutti gli step necessari per comprendere cosa le sta accadendo.
Nonostante la body positive, ancora oggi ce la prendiamo col nostro corpo?
Il body positive può essere utile per parlare di corpi, ma il disturbo alimentare è una malattia psichiatrica che col corpo ha poco a che fare. Anzi, per niente. Spesso il corpo è una conseguenza, non è detto neanche che si trasformi troppo. Con Asia, infatti, non lo abbiamo raccontato. Il corpo sta solo nelle movenze, nel modo in cui muove la bocca, come guarda o tocca le cose. Fine.
E come vive, lei, il suo corpo?
Una domanda cardine, su cui Asia mi ha fatto riflettere molto. Per tanto tempo ho portato avanti la mia mente lasciando indietro il mio corpo. Gli voglio tanto bene, l’ho sempre amato, a prescindere dai giudizi a cui è stato sottoposto nel corso di questi anni sui social. Solo che, anche quando credevo di averci instaurato un buon rapporto, lo stavo trascurando. A causa del lavoro non avevo più alcuna disciplina, cenavo alle quattro o non facevo colazione se mi svegliavo troppo tardi. Non avevo una direzione, una routine, un ordine. È grazie a Asia che, a un certo punto, ho ricominciato a dargli importanza. Quando anche solo un sintomo si presenta nella tua vita – e a me è capitato – bisogna per forza sedersi e dare retta a quel disagio.
Come ha vissuto l’interpretare un personaggio che, volontariamente o meno, potrebbe diventare un esempio per la prevenzione o il superamento dei disturbi alimentari?
È stata una responsabilità. Mi ci sono buttata dentro, forse troppo, ma con Maruska Albertazzi, attivista e consulente, ho capito il mondo di Asia e per impersonarla ho conosciuto chi ha dovuto affrontare il suo stesso demone. Non ho mai sofferto in prima persona di disturbi alimentari, ma alcune mie amiche sì, e molto. Ci ho pensato tanto, poi ho dovuto seguire l’istinto, lasciarmi guidare, non pensare più al fatto che stavo raccontando la storia di Asia, ma potevo ridare visibilità a chi si sente invisibile. Ho cercato di non restare immobile. Ho pensato a tutte le persone che muoiono per questa malattia, e non volevo più sentirmi impotente.
Ha incontrato chi sta combattendo contro i disturbi alimentari? E ha pensato che con l’uscita di Skam 6 le testimonianze che le persone vorranno condividere con lei aumenteranno?
Quando ho cominciato il percorso con Maruska avevamo deciso di posticipare un simile incontro. Non mi trovavo ancora nel momento di accogliere certe storie, dato che già quella di Asia era molto impattante. Ma ci sono stati degli intrecci che hanno anticipato l’inevitabile, con scambi molto belli che, alla fine, hanno fatto bene sia a chi li raccontava e soprattutto a me che li ascoltavo. Lì fuori ci sono persone che stanno male. Bisogna smettere di pensare che il disturbo alimentare sia un vizio o un capriccio frivolo.
Bisogna ritrovare un controllo. Sano però, non come quello che Asia esercita col cibo.
C’è un momento in Skam 6 in cui Asia si rende conto che la lista va male, con Beniamino va male, che le sue amiche stanno andando tutte avanti, che la famiglia è concentrata solo sui tornei della sorella. Così, a un certo punto, raggiunge l’isolamento che ricercava. Ma è in quel momento che comincia a sentirsi inutile. È come se il tempo si fermasse e la logorasse da dentro. Per fortuna arriva Giulio, che è disposto ad ascoltare i suoi silenzi. Magari in modo goffo, all’inizio, ma incisivo abbastanza da farle capire di potersi fidare.
Silenzio e isolamento. Temi che ha trattato nel suo libro. Non è che più cerca di incanalarsi in questi spazi vuoti, più in realtà tenta di aprirsi?
Aggiungo inoltre che nel mio ultimo libro c’è anche un personaggio che si chiama Asia, un nome che ho scelto prima del casting per Skam. Credo che ognuno cerchi una determinata energia che ci spinge verso le cose. La stessa che ti fa accettare un progetto o meno. È ovvio, quindi, che il risultato risulti coerente. L’isolamento per me è stata una forza quando ero più piccola, adesso sta diventando qualcosa che mi fa paura, ma sto cercando di trovare un equilibrio nel mezzo.
In questa apertura c’è stata una vasta gamma di attività intraprese: è un’attrice, una scrittrice, ha fatto Pechino Express. Come vede tanta varietà nella sua carriera?
Ogni nuova avventura è un’aggiunta bellissima. Ho iniziando volendo fare l’attrice, poi per caso mi sono ritrovata a fare un provino per una realtà televisiva, e da lì mi si è aperto un altro mondo, fatto di un tipo diverso di comunicazione che poteva a sua volta diramarsi. Io ho voglia di urlare, come fa a bastarmi solo un canale?
Soprattutto quando vogliono metterti in un cassetto.
Mi dispiace che, rispetto a tante altre nazioni, in Italia vieni visto soltanto per un aspetto della tua vita o della tua carriera. Se fai televisione non devi tentare altro. E invece io faccio radio, scrivo un libro, recito in una serie tv. Mi applico. Mi applico in qualsiasi attività come fosse l’ultima cosa che faccio.
Per definirla gli altri usano anche il termine influencer ed esiste gente che fa attivismo utilizzando i social. Ma si può fare anche con un altro linguaggio ancora? Fare attivismo con una serie tv?
Partirei dal dire che, intanto, l’attivismo è un lavoro. È un lavoro e si può anche fare mentre si porta avanti un altro mestiere, ma è un impegno a tempo pieno. E sì, si può fare anche con una serie tv, perché se guardiamo alla storia umana, l’attivismo che fa maggiore presa è sempre quello sostenuto dall’arte. È così che un messaggio ti rimane dentro. L’arte tocca corde che la tua lingua o i social non potranno mai sfiorare.
Che poi, lo ha ammesso lei stessa, ha voglia di urlare. Sa però che se urla le sue parole possono avere un peso?
Sì, e attraverso i social lo percepisco tanto. È anche il motivo per cui ne ho diminuito l’utilizzo. Prima era un prolungamento della mia rappresentanza studentesca, uscivo da scuola, prendevo il telefono e raccontavo tutto ciò che era accaduto e che mi passava per la testa. Non pensavo al montaggio, a che ora pubblicare. Accadeva qualcosa di brutto o che mi faceva arrabbiare? Facevo un video e postavo. È stato nel periodo degli overparty su Twitter che ho realizzato che i social sono un megafono che ha un prezzo e nel tempo ho capito che non sono disposta a pagarlo, visto quanto può essere alto. Ovviamente continuo a usarli ancora oggi, ma per lanciare le attività che seguo, al cui interno, poi, c’è ciò che voglio dire.
Sta dicendo che ha reso più morbido il suo lato polemico? Che, poi, è lo stesso della sua Asia.
Io resto polemica. Asia mi ha insegnato ad essere più indulgente, semmai. Come a saper perdonare.
Tra l’altro Skam 6 è molto schierata. La stagione si apre con un video antifascista.
E meno male. Ci siamo rotti le palle di prodotti che non hanno coraggio, rimangono sulla superficie, che al massimo strizzano un po’ l’occhio ad alcune situazioni, ma poi non le approfondiscono per paura di rimanerne scottati o di venir tagliati fuori. Che poi non è Skam ad essere schierata in questo caso, ma Asia. La serie è un contenitore che non ha avuto timore nel prendere posizione. E anche Netflix si è presa la libertà, in un periodo storico delicato, di tratteggiare una direzione precisa.
Forse Skam 6 ha capito che le nuove generazioni sono più attente politicamente?
Mi sento di dire che è vero, ma non dimenticando le periferie. I ragazzi oggi sono più informati perché siamo bombardati dall’informazione, si preoccupano di più perché sono terrorizzati da ciò che li circonda, e questo li spinge ad agire. Così vediamo una società più fluida, giovani che imbrattano i dipinti. Ma c’è una parte ben nascosta che vive ai bordi della metropoli, che deve preoccuparsi di non perdere il lavoro, anzi, a volte prima ancora di trovarlo, e di mantenere una famiglia in maniera dignitosa. Sembra una cosa distante, ma spero che con Skam parte di questo cambiamento che la società sta attraversando diventi la quotidianità anche lì, dove ci si sente più lontani. Che faccia capire cos’è il fascismo e vedere cosa può accadere a persone come Giulio. Che anche la redenzione è possibile, si può sviluppare una coscienza civile e che l’attivismo non serve solo a evidenziare i problemi, ma a creare ponti di dialogo.
Che posizione sente di ricoprire in questo dialogo?
Sono pro attiva. Da quando sono studente faccio il possibile per essere una voce, un braccio, una gamba in più per lottare a favore delle cause a cui tengo.
Cita spesso gli anni sui banchi di scuola. Come la fa sentire ripensare alla sua adolescenza?
Mi manca molto. La rivivo con nostalgia. Il fatto è che ho corso velocissimo per diventare adulta e adesso sto facendo un po’ di fatica a lasciare andare la parte di me più bambina. Anche con la scuola, non ero una studentessa modello, ma avevo trovato una certa sintonia con la mia classe, i professori, anche la preside, il che ha reso i cinque anni del liceo attivi, creativi, utili per la donna che sarei diventata. Spesso, se non si sente di avere un proprio posto nel mondo, la scuola può essere un luogo in cui cercare di ricavarselo.
Cosa non le manca, invece, della Nicole adolescente?
Vivere le cose con tutta quella intensità. Ero più incosciente, facevo e dicevo cose senza mettere nemmeno una virgola. Crescendo ho sviluppato una certa razionalità, vivendo magari in modo meno istintivo, ma sicuramente più giusto.
Qual è l’oggetto che continua a portarsi dietro nonostante lo scorrere del tempo? Sta anche affrontando un trasloco.
Intanto devo subito confessare che, se fosse per me, vivrei come un’accumulatrice seriale. Sono affezionata a tutti i miei oggetti e non li lascerei mai andare. Di sicuro nella casa nuova mi porto il poster di Pulp Fiction. Me lo ha regalato una mia carissima amica quando ancora sognavamo da lontano questo mondo. Avrà almeno dieci anni. Guardalo mi ricorda tutte le tappe che abbiamo attraversato.
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