Verrebbe da dire che a volte i miracoli in Rai capitano. E Scugnizzi per sempre è uno di loro. Ma sarebbe ingeneroso, perché sono diversi anni che tanti bei prodotti, soprattutto seriali, trovano spazio e rilevanza all’interno del palinsesto dell’azienda di Viale Mazzini. In particolare da quando Rai Play è diventata una colonna fondante e fondamentale della tv di stato, tanto come luogo di visione quanto di produzione. Contenuto original e figlio di RaiDocumentari e Tramp Ltd (dio ci conservi Ficarra e Picone anche come produttori, da De Angelis a Pirrotta passando per Scugnizzi, quante medaglie si sono messi in petto insieme a Nicola Picone e Attilio De Razza), questa docuserie è un gioiello di una notte di fine estate (anzi tre, per la precisione, perché le sei puntate oltre che tutte visibili sulla piattaforma on line della tv pubblica sono andate in onda, a due a due, il 21, 24 e 25 agosto in seconda serata su Rai2, uno strano ibrido a dire il vero: alle 22 circa, dopo le dirette dei Mondiali di Budapest) che illumina la programmazione un po’ asfittica di stagione.
Scugnizzi per sempre, la recensione
Scugnizzi per sempre è un piccolo capolavoro di narrazione e visione, la dimostrazione che con una buona idea, volontà, capacità di ricostruire un’epoca e un’atmosfera, puoi riportare un paese dove neanche sapeva di essere stato. Al sud, in provincia, dove hanno saputo domare le capitali italiane ed europee, rifiutandone la seduzione (anche e soprattutto economica), in una realtà reale e al contempo utopica dove un imprenditore solido e illuminato, un pugno di giovanissimi campioni del luogo e due allenatori di spessore umano e sportivo straordinario portarono una squadra di basket in cima all’Italia e all’Europa, dalla A2 nel 1982-83 fino allo scudetto nella stagione 1990-91. Con una storia semplice, a volte struggente e spesso divertentissima, un’epopea incapace di prendersi sul serio ma che ha fatto la Storia.
A tutti verrà in mente The Last Dance, Michael Jordan e quei Chicago Bulls, ma qui siamo più dalle parti di Una squadra di Domenico Procacci, altra docuserie clamorosa capace di riportarci al tempo in cui l’ItalTennis, tra polemiche e volée, vinse la Coppa Davis. Perché quel lavoro, che rimane tra i migliori film sportivi degli ultimi decenni (c’è una versione ridotta, cinematografica, ma è cinema puro anche a livello integrale), ha un’intuizione geniale alla sua base: raccontare un’impresa sportiva, umana, manageriale con rigore e al contempo con un tono alla Amici miei. Perché una squadra, un gruppo, un team di scugnizzi per sempre ha in sé, tanto è più grande il loro successo, un livello di confidenza, aneddoti, legami che gioca su quel campo intriso di malinconia e divertimento, nostalgia e sogno, utopia e verità che si può ritrovare solo in un contesto che mescola amicizia, sodalizio, voglia di vincere insieme senza tradire se stessi. Perché lo sport, spesso, non è solo metafora della vita e del mondo che ci circonda, ma anche un perfetto, seppur inutilizzato, luogo in cui la commedia all’italiana può giocare la sua partita al meglio.
La trama e il segreto del successo della docuserie
Fortunatamente Scugnizzi per sempre racconta una storia vera. Non c’è il rischio di fare spoiler – anche se molti non ricordano quegli anni gloriosi di una piccola grande squadra di pallacanestro campana, probabilmente perché figlia del Sud (e poi vittima di due fallimenti e un declino impietoso) -, ma uno dei momenti più struggenti ed esemplari della bellezza di questo progetto è il finale della quarta puntata (peraltro che bravi Costantino e i cosceneggiatori Vincenzo Cascone e Sante Roperto a costruire narrativamente il racconto con un cliffhanger accattivante alla fine di ogni episodio). Gianfranco Maggiò, figlio del mitico Giovanni, viene intervistato, è una delle tante voci narranti di questo affresco. Si sta chiedendo, dopo l’ingiustizia infame di una Coppa delle Coppe scippata da arbitri pavidi, come smettere di essere eterni secondi. Nel frattempo, in contorcanto ci sono le immagini di fiction, che sono quasi tutte concentrate, nella docuserie, sui giovani Nando Gentile e Vincenzino Esposito, i due campioni di casa, amici da sempre, gemelli sotto canestro e nella vita. La loro – bravi Antonio Formato e Michele Foschino, cestisti anche nella vita – è una recitazione muta, di commento e cornice al materiale di repertorio e alle tante interviste. Stanno guardando Oscar Schmidt (Luigi Casalini) mangiare, a un tavolo. Lui, il brasiliano cecchino dei tre punti, il campione che li ha cresciuti portandoli ogni giorno all’allenamento con la sua macchina. Il simbolo del basket a Caserta, uno dei cestisti più amati della storia del campionato italiano.
Scugnizzi per sempre
Cast: Antonio Formato, Michele Foschino, Luigi Casalini, Vincenzino Esposito, Nando Gentile, Gianfranco Maggiò, Oscar Schmidt, Francesco Piccolo, Franco Marcelletti, Bogdan Tanjevič,
Regista: Gianni Costantino
Sceneggiatori: Gianni Costantino, Vincenzo Cascone, Sante Roperto
Durata:
Stacco.
Di nuovo Maggiò. Che dice, occhi lucidi e voce rotta, “ci stavamo chiedendo dove poter migliorare. E capimmo che ci saremmo potuti riuscire. Mandando via, pensa un po’, proprio Oscar”. Ancora stacco, Oscar guarda i suoi due fratelli minori di parquet e di macchina. Lui è triste, sconsolato, forse sa già. Vincenzino incredulo nega anche il solo pensiero con la testa. Il capitano, giovane e coraggioso, Nando, lo porta via, con la morte nel cuore. Torniamo sul viso di Maggiò. Sta ricordando l’idea che lo ha portato al successo, eppure è spezzato dentro.
Lo sport è come il cinema
Ecco, chiunque sappia cos’è lo sport, sa che a volte si deve fare come al cinema. Hitchcock diceva che la più bella inquadratura la devi tagliare per salvare il film. Perché non è importante il singolo fotogramma, per quanto bello, ma l’insieme, la capacità di immagini, parole, tagli di montaggio e scrittura di viaggiare in armonia. Vale anche nello sport. Lo sanno gli interisti, che dovettero rinunciare a Ibrahimovič per il Triplete, la Juventus di Zidane che divenne ancora più grande dopo l’addio di Zinedine, il Napoli di quest’anno che vince il terzo scudetto della sua storia senza il figlio prediletto e il campione che ha tirato la carretta negli ultimi anni, Dries “Ciro” Mertens. Ma non è facile, su uno schermo, riportare quel dolore che rimane, anche nella gloria e nella felicità, perché accanto a te non c’è chi ti ha permesso di arrivare fin là, ma che ha dovuto salutare prima di raggiungerlo con te, quasi a compiere un estremo sacrificio per i colori che ama.
Non è facile, perché la gratitudine, come ripeteva il primo presidente della storia della Repubblica italiana, è sempre il sentimento del giorno prima. Perché il tifo e la vittoria aiutano l’oblio. Perché sei gioisci, non vuoi macchie. Ma è qui che si cambia marcia tra una docuserie di alto livello e un prodotto televisivo mediobuono.
Scugnizzi per sempre ha la poesia, la tenerezza e l’onestà intellettuale di interrompere quella marcia trionfale per mostrarti in controluce una delle ingiustizie della vita, di cui la Juvecaserta è impregnata: Giovanni Maggiò, il paròn che seppe far costruire, con la sua impresa edile, un Palasport in 100 giorni (in barba all’amministrazione pubblica che nicchiava, lui fece tutto da solo), se ne andò nel 1987. A lui si deve tutto, ma non riuscì a vedere alzare ai suoi ragazzi, con cui festeggiava anche le ricorrenze comandate, neanche la Coppa Italia, il primo trofeo della storia della sua squadra.
Questo lavoro diretto con maestria da Gianni Costantino (che esordì al cinema con il cult sottovalutato e maltrattato Ravanello Pallido, gustosa e profetica critica in chiave di commedia di una società dello spettacolo che allora stava assumendo i connotati parossistici e grotteschi che ha ora) sa raccontarti con precisione e passione l’epopea giovanile della Juvecaserta targata Latte Matese, che vince il suo primo trofeo giovanile, con il nucleo fondante di chi poi la porterà in finale di Coppa Korac e Coppa delle Coppe. Sa portarti nel percorso di crescita manageriale di geni come Sarti, che seppe costruire un modello sportivo ed economico, quelle delle sponsorizzazioni Indesit, Snaidero e Phonola che accompagnarono la crescita di un miracolo sportivo lungo un decennio, di una squadra che grazie agli investimenti trova un genio come Bogdan Tanjevic – e il secondo è quel Franco Marcelletti che poi prenderà le redini e vincerà coi suoi ragazzi – che poi finirà in vetta al mondo, nazionale italiana compresa.
Capisci già qualcosa di magico, da queste testimonianze: tutti parlano volentieri, tutti hanno qualcosa dentro che brilla, da Oscar e i suoi rimpianti, a Esposito finto disincantato a cui si accendono gli occhi di gioia e di rabbia a seconda che ricordi una vittoria o un furto arbitrale, a Nando Gentile, ancora capitano e gigante buono, uno che al contempo potrebbe mettere pace tra Russia e Ucraina con un sorriso, ma anche abbatterle con una serie di tiri a canestro, un concentrato di saggezza e grinta e carattere che raramente si sono visti prima. E dopo. E Tanjevič, che di quell’esperienza parla con amore e affetto – eppure la bacheca l’ha riempita altrove – o Francesco Piccolo, premio Strega e casertano, ma soprattutto uno che può “dimenticarsi il nome di un grande scrittore, ma non di un atleta”.
Il film sa entrare, contemporaneamente, dentro una famiglia, dentro un sogno, restituire la semplicità di due ragazzi che hanno solo la palla a spicchi negli occhi, nelle mani e nel cuore o la goliardia affettuosa di una cena di Natale in cui le quattro mani più preziose del quintetto casertano – quelle di Esposito e Gentile – si divertono a tirare i “botti” prima sotto la tavola imbandita e poi nel cortile dei Maggiò. Immaginate ora, con tutte le assicurazioni e i contratti che ti impediscono anche di respirare prima di chiederlo alla società, cosa succederebbe se due che con le mani possono farti salire nell’Olimpo del basket, tirano fuochi d’artificio, mettendo in pericolo l’incolumità del resto della squadra e delle loro armi del mestiere. E poi entri nel loro intimo, senti parlare le mogli dolci, forti, divertite dal ricordo di quei ragazzi di cui si sono innamorate e che in fondo, confessano, sono rimasti gli stessi. Quanto è bello e potente lo sguardo pudico con cui Georgi Gluškov confessa che dopo il tendine d’Achille che si rompe ha paura di perdere ciò che è la sua vita, il basket, e riesce a farcela grazie a tutti, amici, compagni di squadra e casertani che non lo mollano un attimo. E ancora Sandro Dell’Agnello, l’eroe delle finali del 1991, che racconta orgoglioso e umile della stoppata a un giovane Michael Jordan in amichevole (ci era già riuscito con Moses Malone). Ed è impagabile la soddisfazione bambina con cui Tanjevič racconta come lo scippò, in sede di mercato, a Dan Peterson (che senti, e più che le sue vittorie, che sono pur tante) pensi al “mamma, butta la pasta” delle sue telecronache. Piccolo inciso per gli appassionati: tranquilli, sua maestà Flavio Tranquillo c’è.
Un altro sport, un altro mondo e in fondo un altro cinema che mette insieme il formato narrativo della docuserie, ora la più efficace per lo storytelling che serva a ricostruire un momento storico (spesso gli anni ’70 e ’80, nostalgia canaglia, da SanPa a Il Principe, passando all’estero anche per il già citato The Last Dance) e un’epoca di costume, grazie alla ricetta eterna e aggiornata della commedia all’italiana che, laddove non trova più spazio nella finzione, riesce invece a vestire le storie vere di un realismo potente e romantico. Perché in fondo Esposito che rifiuta i soldi di Sama e Gardini per andare a Roma, una valigia piena di banconote, assomiglia tanto al Totò – guarda caso, in quel film, colonnello Di Maggio, che davanti al gerarca, al maggiore Kruger, nazista ottuso, che gli dice “guardi che io ho carta bianca” gli risponde con fare perentorio e liberatorio e follemente eroico “e ci si pulisca il culo!”.
Scugnizzi per sempre merita di fare un lungo viaggio, di diventare cult e indimenticabile come quella JuveCaserta.
Scugnizzi per sempre, la trama delle sei puntate
Episodio 1 – Palla a due
Caserta, primi anni ’80. In una provincia del Sud Italia lontana dai circuiti che contano, un gruppo di scugnizzi della città gioca in strada e sogna di realizzarsi nell’unico sport che tende al cielo: la pallacanestro.
Episodio 2 – La reggia del basket
1982. La costruzione del PalaMaggiò in soli cento giorni dona agli scugnizzi l’arena ideale per le loro battaglie sportive. Per la Juvecaserta andare a sfidare il grande Nord del quadrilatero del basket non è più soltanto una fantasia.
Episodio 3 – Gli eterni bonsai
Stagioni 84/85 e 85/86. Gli scugnizzi arrivano per ben due volte a pochi punti dal trionfo, ma si schiantano contro il muro dei giganti dell’Olimpia Milano. Nello spogliatoio inizia a insinuarsi l’ombra di un dubbio: e se i casertani fossero soltanto eterni secondi?
Episodio 4- Il profumo della vittoria
Le stagioni successive regalano agli scugnizzi le prime gioie sportive. Nel 1989 va in scena la partita più epica: la finale della Coppa delle Coppe contro il grande Real Madrid. Una battaglia giocata punto a punto, fino all’epilogo più imprevedibile.
Episodio 5 – La grande scommessa
1990. Al termine di un’altra stagione fallimentare, gli scugnizzi decidono di assumersi ancora più responsabilità e puntare definitivamente su loro stessi. In che modo? Tradendo il realizzatore di punti più prolifico.
Episodio 6 – L’ultimo canestro
Stagione 90/91, finale scudetto: di nuovo Juvecaserta contro Olimpia Milano. La partita del dentro o fuori, della vittoria tanto agognata oppure dell’oblio. Una storia che dopo 33 anni non smette di stupire e riporterà gli scugnizzi lì dove tutto è iniziato: a Caserta, al PalaMaggiò.
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