Valeria Golino, tra le attrici e registe più importanti del nostro grande e piccolo schermo, Giancarlo De Cataldo, magistrato, scrittore e sceneggiatore di Romanzo criminale e Antonio Scurati, giornalista e autore di M. Il figlio del secolo, erano insieme sullo stesso palco per parlare di letteratura e serialità in un talk durante le celebrazioni per i 20 anni Sky Italia organizzate al Museo Nazionale Romano – Terme di Diocleziano di Roma.
Un rapporto, quello tra i due media, da sempre profondo, fatto di complicità e contrasti inevitabili.
Adattare significa “snaturare”
“Conosco il libro da parecchi anni. La prima volta forse l’ho letto nel 2002”, ricorda la regista di Miele ed Euforia parlando del romanzo di Goliarda Sapienza, L’arte della gioia, di cui ha firmato l’adattamento per una serie tv in preparazione. “Quando ero molto giovane ero affascinata da questa storia perché mi interessava interpretarla come attrice. Ero nell’età giusta per la protagonista, Modesta. Un vero unicum nella letteratura italiana. Lo è ancora. Da quando è stato pubblicato in molti hanno provato a farne un film. Mi sono accorta che era molto difficile. Il romanzo è come una bestia a tre teste di letteratura barocca disordinata e scabrosa, che dimentica tutte le regole che la letteratura dovrebbe seguire”.
“Penso di essere riuscita in parte a rendere la complessità di Modesta. Rispetto al libro è impossibile, per me, trasporre tutta la profondità del testo” sottolinea Golino, parlando della sfida di dare vita alle pagine scritte da Sapienza. “La trasposizione è per sua natura snaturante. Bisogna trovare il modo di trattenere un po’ quella bellezza in modo che sia organica al racconto cinematografico e televisivo. I puristi de L’arte della gioia si arrabbieranno. Non è più quel libro. È filtrato dalla sensibilità mia e dei miei sceneggiatori, dall’estetica e dal periodo storico in cui viviamo. Non si può fare un copia e incolla. Ma spero che, nonostante questo, sia comunque bello”.
Interrogato sull’adattamento di uno dei suoi romanzi più noti, Romanzo criminale, Giancarlo De Cataldo ha confidato come “la trasposizione seriale mi ha tolto un bel po’ di cicatrici. Mi ha aperto nuovi orizzonti e cancellato un certo snobismo. Quando nacque l’idea di una trasposizione seriale risposi: ‘Ma c’è già il film, vogliamo fare anche la serie?’. Mi fu spiegato che la tv non solo stava raggiungendo il cinema, ma offriva anche una grandissima opportunità: riprendere il tempo narrativo del romanzo e non costringerlo al formato di due ore del cinema. È stata una rivoluzione.”
M – Il figlio del secolo e le insidie della trasposizione
Tra le serie più attese della prossima stagione televisiva c’è senza ombra di dubbio M. Il figlio del secolo, adattamento dell’omonimo romanzo firmato dal premio Strega Antonio Scurati. La serie Sky Original, prodotta da Sky Studios e da Lorenzo Mieli per The Apartment Pictures, società del gruppo Fremantle, in collaborazione con Pathé e Small Forward, è diretta da Joe Wright e vede Luca Marinelli nei panni di Benito Mussolini. Scurati ha contribuito alla sceneggiatura insieme a Stefano Bises e Davide Serino.
“Ho accompagnato la scrittura della serie dal principio. Quando un autore cede i diritti di una sua opera si trova a un bivio: o si ritira sull’Aventino cercando di ottenere più soldi possibili, oppure cerca di collaborare e fare di tutto perché l’opera gli sia congeniale. Ho scelto questa seconda strada” ha dichiarato lo scrittore.
“La mia formazione intellettuale è antifascista e lo rivendico, nonostante una parte del mondo oggi sembri andare da un’altra parte. Quando decidi di scrivere un romanzo su Mussolini, cosa che mai era stata fatta finora nel nostro paese, la principale preoccupazione è di non incoraggiare empatia o simpatia col protagonista” sottolinea Scurati, interrogato su uno degli aspetti più complessi del suo lavoro, amplificato dal formato seriale.
“Mi ero imposto di proibirmi le procedure tipiche del romanzo. Dialoghi fittizi, scene inventate, introspezioni strumentali. È possibile un cinema che non si appoggi sull’empatia? Sì, ma è un paradosso. Non poteva essere la strada giusta. Joe Wright, gli sceneggiatori e il produttore hanno seguito un’altra via. Il personaggio interpretato straordinariamente da Luca Marinelli richede partecipazione emotiva. Ma quando ti ci avvicini, ti agghiaccia. E provoca orrore. In questa tensione credo che il cinema abbia ereditato l’impegno etico del romanzo”.
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