Roma, metà mattinata. Terrazza di un elegante albergo a Trinità dei Monti. I campanili della chiesta in cima all’omonima scalinata sono così vicini che si ha l’impressione di poterli toccare. In lontananza piazza di Spagna con la barcaccia, via Condotti addobbata per le feste natalizie e, ancora più distante, la cupola di San Pietro a svettare tra i tetti della città. Da una tendina nera posizionata per coprire il set dell’intervista dalla luce del sole si sporge per dare il benvenuto allo spagnolo Pedro Alonso, il protagonista di Berlino, lo spin-off de La casa di carta disponibile su Netflix dal 29 dicembre.
Distinto, affascinante, carismatico. Un po’ come Berlino, elemento distintivo della serie creata da Álex Pina e divenuta un fenomeno globale, tra Bella ciao, maschere di Salvador Dalì e rapine alla Zecca di Spagna. Un ruolo capace di regalare ai suoi protagonisti – Alonso compreso – una popolarità istantanea e, nel suo caso, uno spin-off che porta il nome del suo personaggio in cui dà libero sfogo a tutta la sua verve romantica. “Se ho mai avuto paura di restare intrappolato nel ruolo?”, si chiede l’attore parlando con THR Roma.
“Credo che Berlino sia una categoria narrativa. La mia vertigine è stata il livello di esposizione mediatica di un fenomeno come questo. Ma per me è innegabile che si tratta di un dono narrativo, professionale e vitale che vivo con grande intensità e che mi permette di fare altre cose. Mi assumo la ‘schiavitù’ che una cosa del genere comporta. Ma poi mi dà modo di avere molte altre vite”.
Durante la promozione dell’ultima stagione de La casa de carta, aveva dichiarato che Berlino è il personaggio degli opposti. Quando tutto va male, lui si risolleva e viceversa. Inoltre è anche capace di rallentare il ritmo della storia. In questa stagione di Berlino, qual è il ritmo che dà al racconto?
Qui, più che il ritmo – che è sempre una chiave, una velocità così particolare per Berlino come personaggio – lo spazio del rischio ha avuto a che fare con il tono. Il primo mese e mezzo di riprese abbiamo parlato del tono centinaia di volte. Stavamo andando più verso una commedia romantica. Il personaggio era più un protagonista da feel good movie. Improvvisamente ci siamo trovati a Parigi, a parlare d’amore. La paura che avevo era che il personaggio non si snaturasse, che non perdesse il suo DNA. Perché non avrebbe avuto senso, no?
Stiamo facendo un nuovo genere e improvvisamente parli da un altro luogo. E questo ci ha fatto lavorare con una gamma stilistica più ampia. Perché il personaggio, a volte, è inquietante, imprevedibile, molto impresentabile, ma cerca ancora con forza l’amore romantico attraverso strategie molto discutibili (ride, ndr). Per me, la difficoltà maggiore è stata quella di trovare quell’apparenza di facilità, che però stilisticamente implicava un lavoro di tessitura molto fine. Abbiamo quindi dovuto reinventare la serie. Penso che sia un’evoluzione molto chiara di ciò che avevamo prima. È un’altra galassia. È questo il paradosso, no?
Crede che Berlino sia, in un certo qual modo vittima di se stesso e della sua ossessione per l’amore? O il suo modo di approcciare la vita, in realtà, è un punto di forza?
Penso che Berlino sia un terrorista emotivo, un sociopatico, un bugiardo, una bestia cattiva. Ma in un mondo in cui quasi tutti noi viviamo molto dissociati, lui genera dei “golpe” di vita pura. Cerca di fare di ogni momento il primo e l’ultimo, per sé e per chi lo circonda. Traveste tutto da calcolo per scatenare il caos. Naturalmente, un tipo come questo, che parla d’amore, è una grande contraddizione. Quindi, in un certo senso, ci siamo probabilmente lanciati nel genere della commedia romantica, che era un genere che funzionava molto negli anni Novanta, ma era un po’ in disuso. E ora lo abbiamo riportato in vita per ucciderlo definitivamente (ride, ndr).
Perché ha deciso di tornare a interpretare Berlino? Ha mai avuto paura di restare intrappolato nella popolarità che questo personaggio le ha regalato?
Quando mi hanno proposto di fare Berlino, non temevo che il personaggio non avrebbe avuto una carriera. È come se dovessi interpretare Sherlock Holmes. È una categoria. E credo che Berlino sia una categoria narrativa. Infatti, appena ho visto gli otto nuovi personaggi mi sono detto che quello del Berlino precedente è un universo diverso. È un altro tempo, un altro approccio, un altro tono, un altro genere. La mia vertigine è stata il livello di esposizione mediatica di un fenomeno come questo. Ma per me è innegabile che si tratti di un dono narrativo, professionale e vitale che vivo con grande intensità e che mi permette di fare altre cose. Quest’anno ho prodotto, diretto e scritto una serie di non-fiction. Ho girato un film di fantascienza (Awareness, ndr). Ho pubblicato un romanzo (Libro di Filippo, edito da La nave di Teseo, ndr). Mi assumo la “schiavitù” che una cosa del genere comporta, me ne occupo. Ma poi mi dà modo di avere molte altre vite. Non credo sia un progetto sbagliato.
Nella casa di carta c’erano tantissime canzoni italiane che hanno vissuto una seconda popolarità grazie alla serie. In questa stagione ascoltiamo Felicità…
Felicità e Como yo te amo. Si ascolta poco ma abbiamo registrato anche Como yo te amo.
Ma cos’è che come attore la rende felice?
A casa, quando da bambino cantavo, mi dicevano: “Pedro, non cantare”. E non credo di averlo mai fatto prima di Bella Ciao. Non avevo mai cantato una canzone intera in vita mia. Ho avuto un po’ di difficoltà a farlo. Ho dovuto farlo perché stavamo girando un personaggio di fantasia. Ho dovuto superare molto del mio pudore. E ora siamo chiaramente in modalità concerto (ride, ndr). Stiamo registrando canzoni melodiche romantiche italiane come se fossimo Albano e Romina. Ed è uno di quei regali che la professione mi sta facendo. Perché cantare è come buttarsi nell’oceano. Lavorare in modo integrale. E non avrei mai pensato di poterlo fare e godere in questo modo. Voglio cantare di più.
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