Siamo finiti in una puntata di Black Mirror, e non ce ne siamo nemmeno accorti. Più di quattro anni fa, su Netflix, arrivavano gli episodi della quinta stagione. Oggi, invece, tocca ai cinque della sesta. E sono tutti diversi, unici e particolari. Funzionano come film più che come puntate di una serie tv. Hanno una trama verticale indipendente. Charlie Brooker, lo scrittore-creatore, ha avuto il tempo per riflettere e per studiare. Black Mirror, ora, non è più uno sparo nel buio, un colpo alla cieca con cui provare a beccare qualcosa del nostro prossimo futuro. Black Mirror è diventato una fotografia del nostro mondo. E quindi, in quanto fotografia, non può più esagerare, andarsene troppo lontana, perdersi nei meandri dell’immaginazione e della fantasia; deve rimanere con i piedi per terra, ancorata alla stretta – talvolta, anzi, strettissima – attualità.
Black Mirror: I signori dello streaming
Primo tema, impossibile da ignorare: la “dittatura” – virgolette obbligatorie, certo – dell’algoritmo. Joan is awful è una puntata costruita così, su quello che sembra e che invece non è, sulla nostra percezione del mondo e delle cose, sulla tecnologia che avanza e che ci divora, sui contenuti consigliati, da “bingewatchare” (neologismo: perdonateci), e su quelli che funzionano di meno. Il sonno è il nostro grande competitor, ha detto una volta Reed Hastings: ed è vero. Le piattaforme si prendono i nostri dati e non ce lo chiedono nemmeno. In quella lista infinite di postille, regole e premesse che sono i termini di uso mettono di tutto – questa, ovviamente, è la versione di Black Mirror: non la realtà; non ancora almeno. E di conseguenza la nostra esistenza non appartiene più a noi, ma a loro. I signori dello streaming.
La lotta contro il sistema
La Joan di Black Mirror finisce per diventare la protagonista di una serie tv ispirata alla sua vita, che riprende fedelmente ogni passaggio e ogni mistero, e che la rivolta, la mostra, la disseziona. Joan va in crisi, perde tutto. E la sua lotta si trasforma in una lotta contro il sistema. Per liberarsi, deve gettarsi in un’altra gabbia. Stavolta, però, potrà farlo consapevolmente. Non contro la sua volontà.
Loch Henry, il secondo episodio di questa stagione, riflette su un’altra questione: la nostra ossessione per il crime e per il “content”. Che cosa siamo disposti a fare pur di ottenerlo? Rinunce, crisi, segreti nascosti. Anche in questo caso viene fuori la vera natura – una delle tante vere nature, anzi – del mondo dello spettacolo. E una tragedia, all’improvviso, è un motivo di orgoglio, qualcosa per festeggiare. Un paese intero, addirittura, è contento che si parli di omicidi: così, dicono, torneranno i turisti. Insomma: altro giro, altra stoccata a Netflix – che, da brava, incassa.
Beyond the sea è l’episodio più lungo; dura circa un’ora e venti, ed è ambientato in un passato prossimo, imprecisato, in cui l’uomo è nello spazio, sta continuando la sua corsa verso le stelle, e ha trovato un modo per sopravvivere – per non impazzire, cioè – ai lunghi viaggi. Quella che in un primo momento potrebbe sembrare una storia di fantascienza prende velocemente le sembianze di un thriller, di un dramma psicologico. Chi siamo noi e che cosa vedono gli altri, e che cos’è la nostra umanità e da dove nasce: serve un luogo lontano, isolato e buio per capirlo. Per qualcuno è lo spazio; per qualcun altro, gli anfratti della nostra mente.
Caccia alle notizie
Il genere c’è pure in Mazey Day, ma viene usato in modo più sottile e – che bello – intelligente. La protagonista è una paparazza, e in quanto paparazza dà la caccia alle notizie. Un giorno, uno degli attori che aveva fotografato si suicida, e lei va in crisi. Ma ha bisogno di soldi, e allora torna in pista. E qui la trama, che fino a questo momento si è mantenuta lineare, prende una nuova svolta. Il genere, dicevamo. Ecco, in Mazey Day c’è tutto il genere di cui abbiamo bisogno: horror e fantasy insieme, a braccetto. Chi sono i veri mostri, però, non è così chiaro. Ed è esattamente questa ambiguità che Brooker fa venire fuori ed esalta. Black Mirror è una fotografia, e noi siamo quello che sembriamo.
L’ultima puntata di questa stagione si intitola Demon 79, e sì, c’entrano demoni e l’Inferno. Torniamo indietro nel tempo, in un’Inghilterra divisa tra gli anni Settanta e Ottanta, in cui il nazionalismo si fa sentire e sta riguadagnando potere. Si parla di razzismo, xenofobia e anche di fine del mondo. I più buoni? Probabilmente sono gli stessi diavoli. Ma il punto non è questo.
Vivere tra tweet e TikTok
Il punto è che Black Mirror, nel corso degli anni, si è evoluto. Ha trovato una nuova dimensione e una nuova forma dopo aver lasciato Channel 4. Charlie Brooker e Annabel Jones, produttrice esecutiva, hanno imparato a fare i conti con Netflix e soprattutto hanno capito che avere uno show di successo, visto da milioni di persone, non è la stessa cosa di avere una serie trasmessa su un canale nazionale, in un solo paese. Si sono adattati.
Brooker, da parte sua, ha mantenuto la sua vena ironica e la sua visione. E Black Mirror, come dicevamo, si è adeguato alla sua nuova casa. Oggi è un contenitore di idee, di spizzichi di futuro: non ci dice più chi saremo; ci dice però chi siamo adesso, nel momento stesso in cui ci sediamo sul divano e accendiamo la televisione. Ed è per questo, forse, che a volte sembra così respingente.
Ci chiede lo sforzo di pensare, di associare quello che vediamo a quello che sentiamo e proviamo; ed è una cosa che di recente, specialmente sul piccolo schermo, succede sempre di meno. Viviamo tra tweet, TikTok, video uguali. Tra fotomontaggi e drammi giornalieri. Ci consumiamo per ogni polemica e per ogni questione. Seguiamo i funerali di un politico con passione, sempre divisi tra tifoserie. Vogliamo il reality, il grande fratello; vogliamo che qualcuno ci dica: non va bene, e non andrà bene. Non per sentirci rincuorati, attenzione. Ma solo per avere una conferma: siamo prossimi allo schianto, e un click non ci salverà.
THR Newsletter
Iscriviti per ricevere via email tutti gli aggiornamenti e le notizie di THR Roma