“Abbiamo una cosa in comune”, scherza Chiara Bordi. E ha ragione. Se c’è un aspetto che accomuna attori e giornalisti è l’attesa. I primi in camerino in attesa di girare, i secondi di poter fare un’intervista. THR Roma incontra l’attrice in una stanzetta della Casa del Cinema, nel cuore di Villa Borghese, a Roma, per parlare de I Fantastici 5, serie tv prodotta da Lux Vide in onda in prima serata dal 17 gennaio su Canale 5.
Bordi – che ha debuttato in Prisma e che vedremo anche nella seconda stagione – interpreta Laura, una ragazza amputata ad una gamba appena arrivata al centro della società sportiva di atletica leggera Nova Lux che inizierà il suo percorso nell’agonismo guidata dall’allenatore interpretato da Raoul Bova. Parlando di cose in comune anche Bordi e il suo personaggio ne hanno una. Entrambe portano una protesi dovuta ad un’incidente.
Un realtà con la quale si è confrontata e l’ha spinta a diventare prima modella e poi attrice. Nonché simbolo di una nuova rappresentazione della disabilità lontana da pregiudizi e stereotipi. “Ovviamente non basta una serie tv e non basta una persona. È una questione molto lunga e vorrei fosse diverso. Però non lo è. Quindi la cosa più giusta che posso fare è lavorare e metterci del mio affinché cambi”.
C’è ancora chi si stupisce che un’attrice possa essere anche disabile. E viceversa.
I cambiamenti sono dei processi molto lunghi e molto lenti, per cui da una parte non mi stupisco. Ma è molto difficile decostruire quello che siamo sempre stati abituati a sentire. Se, fin da quando siamo piccoli, cresciamo con una mentalità e la società ci continua a ripetere determinate cose, continueremo a far sopravvivere stereotipi e pregiudizi. È complicato riuscire a cambiare prospettiva. Anche solo pensare che una cosa così distante da te – anzi, una cosa che viene messa così distante da te – possa in realtà avere degli aspetti in comune, che sia l’opportunità di fare un lavoro, di entrare in un determinato mondo.
Come reagisce?
A volte, tra virgolette, mi rattrista perché ti senti di dover dare una motivazione della tua presenza. E credo che in altri casi non sia la stessa cosa con degli attori che non hanno una disabilità, o in generale con persone che non hanno una disabilità. Sono consapevole del lungo processo di cambiamento. Anzi spero che la mia presenza e I fantastici 5 possano in qualche modo farne parte e poter dare alle persone dei piccoli strumenti per riuscire un po’ a cambiare prospettiva.
Ovviamente non basta una serie tv e non basta una persona. È un lavoro in cui servono anche degli strumenti esterni dati dalla società. Serve che le persone siano consapevoli, che ci sia un’istruzione alla base, banalmente a scuola. È una questione molto lunga e vorrei fosse diverso. Però non lo è. Quindi la cosa più giusta che posso fare è lavorare e metterci del mio affinché cambi.
Interpreta un’aspirante atleta. Com’è andata con la preparazione atletica?
Fare nella pratica quella che è la passione del tuo personaggio per un determinato periodo di tempo è stato un percorso molto interessante. Provi sulla tua pelle le difficoltà che si incontrano, determinate dinamiche. Prima di iniziare ad allenarmi mi dicevo che dovevo assolutamente far caso alle azioni che fa il personaggio – in quale momento si cambia la protesi, come va vestita al campo, se la protesi la mette fuori o dentro la pista. Tutte piccole cose che volevo portare nella realtà e che abbiamo inserito per essere più realistici possibili.
È stato difficile ma non troppo, perché utilizzare una protesi da corsa non è come una gamba normale. Essendo una molla ogni volta che metti peso ti restituisci energia. Devi avere una muscolatura adatta a sopportare questa spinta e a saperla anche gestire. Come primo passo c’è stato il fare realizzare una protesi da corsa, imparare ad utilizzarla e poi imparare a correre. Fatto questo ho lavorato sulla postura. Sicuramente è stato un tentativo. Non dico che in pochi mesi si riesca a diventare un’atleta agonista, altrimenti lo saremo tutti (ride, ndr).
Uno dei temi del nostro tempo è l’inclusività che passa anche attraverso i social. Le è mai capitato di imbattersi in persone che come lei simboleggiano un cambiamento nella rappresentazione e imparare da loro?
Assolutamente sì. Penso che il 90% della mia informazione riguardo alla giusta rappresentazione della disabilità derivino da due persone su Instagram che ho avuto il piacere di conoscere anche dal vivo, Marina Cuollo e Sofia Righetti. Cuollo è una scrittrice, ha una disabilità, ha scritto diversi libri e fa molta informazione riguardo alla sua giusta rappresentazione nei media. Righetti è una filosofa laureata in Disability Studies che fa molta informazione. Non essendoci per me altre fonti valide grazie al quale informarmi, molto spesso lo faccio tramite loro. Rappresentano un punto di riferimento.
Il suo personaggio soffre per l’iper competitività che c’è all’interno del gruppo atletico. È qualcosa che da attrice ha vissuto anche lei?
No, non mi è capitato di vivere una sorta di competizione. Anzi, grazie ai progetti che ho fatto, si sono spesso creati dei gruppi molto forti. Da una parte rafforzati anche dal fatto che facendo lo stesso lavoro abbiamo le stesse difficoltà. Soprattutto ragazzi coetanei che allo stesso modo si cercano di muovere con cautela in questo mondo che, a volte, può essere molto difficile soprattutto se non hai delle persone dietro. Al contrario, quello che ho sentito è solidarietà. Allo stesso modo, quando vedo un collega che lavora in questo ambito raggiungere dei risultati sono contenta come se capitasse a me. Per ora questa competitività non l’ho molto percepita. Provini a parte (ride, ndr). Speri semplicemente che sia tu a prendere la parte. Però è naturale, umano.
In Prisma, come già fatto in Skam, gli adolescenti vengono raccontati in un modo molto più realistico rispetto ad altre produzioni. Dopo aver debuttato su una piattaforma come Prime Video, e quindi raggiunto tantissimi ragazzi, le è capitato di confrontarsi con loro?
Sì, ed è stata per me la soddisfazione più grande. Allo stesso modo per me. Perché Prisma è stato un buon esempio. Mi ha fatto ragionare su tante cose, in primis sulla complessità di un periodo come l’adolescenza. Anche solo il titolo ci fa capire che dentro di noi ci sono tremila sfumature. È un prodotto fantastico che fa sentire rappresentati gli adolescenti. Il regista, Ludovico Bessegato, fa un lavoro immenso per riuscire a mettere in scena le complesse forme che ci avvicendano nell’adolescenza. Ma non sotto forma di pregiudizi. Mi ci sono riconosciuta anche io. Non è un agglomerato di stereotipi, ma un insieme di emozioni contrastanti.
Per il suo futuro da attrice cosa si augura? Vorrebbe che la sua protesi fosse solo un elemento in più e non quello che la definisce come interprete?
Sì, assolutamente. Ho due obiettivi. Uno è che non voglio essere etichettata come attrice con disabilità. “Ho i capelli neri, ho gli occhi neri, sono alta 1,75 metri e ho una protesi”. È solo una tra le mie tante caratteristiche. Di base sono un’attrice. In più il fatto di dire attrice con disabilità, magari ti distanzia un po’ da quello che è il lavoro di base. Il secondo obiettivo enorme che ho, e che spero un giorno di poter dire di aver realizzato, è interpretare un personaggio che da script non abbia una disabilità. Vorrebbe dire aver fatto effettivamente dei passi avanti perché quella tematica sarà stata davvero normalizzata.
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