In Corea del Sud c’è un’opposizione femminista che lotta contro la cultura patriarcale, e a raccontarcela sono anche i K-Drama, serie tv che spopolano sulle piattaforme streaming internazionali. L’evoluzione dei personaggi e i nuovi scenari proposti al pubblico – che sempre di più affrontano questioni che fanno parte del reale dibattito politico e sociale sudcoreano – ci restituiscono lo spaccato di un Paese che da una parte si classifica tra gli ultimi per parità di genere (per il Forum Economico Mondiale nel 2022 la Corea del Sud si trova al 105esimo posto su 146 Paesi, Italia al 79esimo) e che dall’altro lotta tentando di normalizzare la visione di una donna diversa da quella imposta dalla società patriarcale. Lotta, appunto. A dimostrazione che la strada da fare è ancora tanta. E forse non solo per i K-Drama e non solo in Corea.
L’onda sudcoreana sul globo
K-Drama sta per Korean Drama, è un prodotto televisivo sudcoreano che sta riscuotendo un importante successo in tutto il mondo. Insieme al K-Pop (la musica popolare sudcoreana: ve lo ricordate “Gangnam Style” del rapper Psy?) contribuisce a incrementare la “Hallyu” o più comprensibilmente “Korean Wave”, il fenomeno culturale che ha visto la popolarità globale della cultura sudcoreana aumentare esponenzialmente a partire dagli anni novanta. Il doppiaggio dei dialoghi ha contribuito al successo di queste serie: permette allo spettatore di entrare in maggior empatia con i dialoghi e, di conseguenza, con i personaggi.
Secondo le stime Netflix l’audience dei K-Drama, tra il 2018 e il 2022, è triplicato. E oggi questi prodotti, che nel loro formato più popolare sono miniserie autoconclusive composte in media da 12 episodi da 50 minuti l’uno, sono visti per il 90 per cento da oltre i confini della Corea del Sud. Don Kang, vicepresidente dei contenuti di Netflix Corea, per spiegare la popolarità dei K-Drama ha detto: “Le storie coreane toccano gli aspetti universali della vita – l’amore, i cuori infranti e la tenerezza – e allo stesso tempo offrono uno sguardo sulle sfaccettature uniche della cultura coreana”.
L’amore romantico sembra essere, in effetti, il protagonista della maggior parte di queste sceneggiature, ma dietro ad esso ci sono personaggi molto diversi da quelli che venivano proposti nel recente passato. Se prima erano quasi esclusivamente casalinghe relegate al ruolo ombra del proprio marito, introverse e bisognose di essere salvate, oggi sono donne appassionate alla propria carriera, che perseguono obiettivi di determinazione e resilienza e che mettono in discussione gli ideali di bellezza tradizionali, che in Corea rappresentano una delle più importanti forme di emancipazione femminile.
Quest’ultimo caso è quello di My ID is Gangnam Beauty, la serie da 16 episodi che affronta il delicato tema della chirurgia estetica e dell’autostima. Un’opera trasmessa appena tre anni dopo la pubblicazione del rapporto del Global Aestethic Survey 2016 dove si evinceva che in Corea del Sud 20 persone ogni mille, nel 2015, avevano effettuato almeno un intervento di chirurgia estetica: la più alta percentuale del pianeta. Tra gli interventi più diffusi la creazione della doppia palpebra e la riduzione del mento, un intervento necessario per dare al viso quella forma a V che rappresenta uno dei pilastri della bellezza coreana.
Vittime di bullismo nel K-Drama
In questo contesto risulta importante la riflessione della protagonista della serie, Kang Mi Rae, che dopo essere stata vittima di bullismo proprio per il suo aspetto ricorre alla chirurgia plastica per cambiare il suo volto e iniziare una nuova vita, salvo poi tornare a essere vittima della derisione dei compagni dell’università che l’apostroferanno con il nomignolo “Gangam Beauty”, ovvero bellezza artificiale. La protagonista, con l’aiuto di un ritrovato compagno di classe delle medie, scoprirà che la vera bellezza non è estetica, ma interiore. Una narrazione che sfida l’idea che si debba conformarsi a particolari canoni fisici per essere accettati o per avere successo, in un paese dove l’aspetto esteriore è invece considerato uno dei fattori fondamentali per il successo nelle relazioni interpersonali, al punto da aver normalizzato l’abitudine che un genitore regali ai propri figli interventi di chirurgia estetica per il compleanno.
Un altro aspetto che viene sempre più valorizzato nei K-Drama sono le relazioni d’amicizia e solidarietà tra donne che fino a poco tempo fa venivano invece schernite da rivalità e gelosie. Her Private Life la storia di una competente curatrice di un museo che occupa tutto il suo tempo libero a scattare foto di un uomo di cui è fan è un esempio di questo nuovo atteggiamento divulgativo: da un parte la storia romantica, dall’altro il rapporto di confidenza della protagonista con la sua migliore amica, che occupa buona parte dello spazio in ogni episodio. Una relazione dove l’amore è solo uno degli argomenti, insieme a hobby, lavoro e famiglia, passioni.
E quindi in un momento storico dove il tempo di visualizzazione dei contenuti proposti dalle piattaforme streaming si avvia a superare quello investito nei prodotti televisivi tradizionali della tv via cavo, è giusto rilevare l’importanza e la responsabilità dei messaggi veicolati attraverso film e serie televisive. In questo contesto la Corea del Sud, che negli ultimi anni ha amplificato gli sforzi per attirare giovani telespettatrici presentando personaggi femminili più complessi e comunicativi, può considerarsi avvantaggiata dal numero di sceneggiatrici donne nel paese: quasi il 90 per cento per il Center for the Study of Women in Television and Film rispetto al 27 degli Usa.
Tra le più note le sorelle Hong Jung Eun e Hong Mi Ran, ma anche Kim Eun Sook, autrice di Descendants of the Sun (dove la protagonista è una promettente e talentuosa dottoressa). E infine Cho Nam-Joo, sceneggiatrice e autrice, che diede il proprio contributo al movimento MeToo coreano, cresciuto dopo un femminicidio avvenuto nel 2015. “Ho voluto scrivere di problematiche di cui le donne coreane non potevano parlare prima perché ritenute scontate” ha detto l’autrice al New York Times presentando il suo libro Kim Ji-Young, nata nel 1982, nel quale racconta la vita di una donna coreana qualsiasi, schiacciata tra aspettative sociali, violenze e discriminazioni.
Un percorso lungo che deve scontrarsi con la cultura e i movimenti antifemministi che si stanno diffondendo nel Paese. In questo contesto non stupisce che il film Barbie, la pellicola sulla bambola Mattel, considerata dai sudcoreani troppo femminista, non sia stato il record di incassi come negli Stati Uniti e in Canada. Solo nella prima settimana l’incasso globale del film, stimato intorno ai 775 milioni di dollari, l’ha reso un fenomeno al botteghino. In Corea del Sud, secondo i dati del servizio di monitoraggio del Korean Film Council, non ha mai superato il terzo posto in classifica. Addirittura quarto dopo l’uscita del film d’animazione sul Detective Conan. Per tutti, però, c’è ancora domani.
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