Quando gli spettatori di Lawmen: La storia di Bass Reeves incontrano per la prima volta il personaggio di David Oyelowo, nuova versione del leggendario vicesceriffo Bass Reeves, non è l’uomo di cui parlano molti appassionati di storia. Non è la figura mistica dell’uomo di legge che, secondo molti, ha influenzato la creazione del personaggio di Lone Ranger a Hollywood.
Il Bass Reeves di Oyelowo è un timoroso ma devoto soldato schiavo dell’esercito confederato durante la Guerra civile. È costretto a prestare servizio dal proprietario di una piantagione di schiavi dell’Arkansas e dal maggiore dell’esercito confederato George Reeves (interpretato da Shea Whigham). I soldati confederati bianchi e gli schiavi neri costretti a partecipare alla guerra notano subito che Bass viene trattato in modo diverso dal maggiore Reeves: è uno schiavo a cui viene permesso di cavalcare accanto al suo padrone, poiché l’ufficiale sa che Bass ha il dono di essere un tiratore preciso con fucile e pistola.
Il religioso Bass segue gli ordini del padrone della piantagione ma il suo spirito è turbato dalla guerra. Oyelowo lascia che questo disagio si manifesti in modo molto trasparente nel suo personaggio, nella sensazione di aver combattuto “dalla parte sbagliata”.
Ironia della sorte, sono proprio le forti convinzioni cristiane di Bass – e l’ingannevole promessa di George Reeves di emancipazione dalla schiavitù – a mettere in moto l’uomo che il mondo avrebbe conosciuto come un leggendario uomo di legge ed eroe. Bass si infuria a tal punto per il fatto che lo schiavista lo abbia ingannato e non abbia mantenuto una promessa così misericordiosa, che lo picchia quasi a morte, a mani nude e scappa dalla piantagione per salvarsi la vita. La guerra civile finisce e Bass Reeves torna in Arkansas per riprendersi la moglie e il figlio. Il resto è storia.
A metà della stagione della serie Paramount+, Oyelowo ha parlato con The Hollywood Reporter per raccontare il suo viaggio durato nove anni per dare vita alla sua visione della storia di Bass Reeves per la nuova serie di Taylor Sheridan, e per spiegare perché era di estrema importanza per lui raccontare la storia completa dell’uomo di legge.
L’intervista contiene spoiler.
Per prima cosa devo chiederle (e può mentire per non ferire nessuno): le sono mancati i media durante la lunga durata dello sciopero degli attori?
Assolutamente! (ride) Assolutamente, soprattutto con un progetto come questo! Ne sono molto orgoglioso. È il genere di progetto di cui vuoi parlare e per il quale vuoi fare tutto il possibile per sensibilizzare l’opinione pubblica. È stato come essere in una prigione a cielo aperto, senza poter uscire e parlare con voi.
Bass Reeves è stato raccontato attraverso piccoli film indipendenti e serie (The Harder They Fall o Watchmen). Quando ha iniziato a interessarsi a quest’uomo, che molti considerano un grande eroe americano e afroamericano?
Proprio questo: una figura storica davvero straordinaria, quando me ne hanno parlato per la prima volta nel 2014 non riuscivo a credere che non fosse più conosciuto; non ho visto un film, non ho visto una serie tv. Mi sono detto: e che cavolo! Ed è da qui che è nata la mia ossessione di porre rimedio a questa situazione in qualche modo.
Ma è anche l’unicità della storia, passare dalla schiavitù all’emancipazione come è successo a lui, e poi avere una carriera – una carriera di 32 anni nelle forze dell’ordine in uno dei territori letteralmente più pericolosi di quei tempi – e rappresentare le forze dell’ordine nella storia di questo paese. Ottenere i risultati che ha ottenuto. Se fosse stato bianco ci sarebbero stati monumenti, ci sarebbero stati più film, ci sarebbero state graphic novel, tutti si sarebbero vestiti da lui per Halloween. Sappiamo perché non è stato così, e quindi rettificare la situazione e raccontare la sua storia nel miglior modo possibile è stato un viaggio durato sette o otto anni. Sono felice di essere qui.
Come vi siete incontrati lei e Taylor Sheridan per realizzare questa serie come produttori esecutivi?
Conosco Taylor da un po’ di tempo. Ci siamo incontrati al Sundance Film Festival un bel po’ di anni fa, ma era prima di Yellowstone. Un produttore ci ha contattato per questo progetto nel 2014, l’abbiamo proposto nel 2015, poi di nuovo nel 2017.
Ed è stato così fino a quando non c’è stata una rinascita, non solo del western, ma di un certo tipo di narrazione che Taylor ha riportato in auge, dimostrando che c’è un pubblico enorme per queste.
In che modo il suo ritratto di Bass Reeves si differenzia dai pochi altri che abbiamo visto al cinema e in tv?
Mi sono concentrato sul fatto che si tratta di un uomo con tante cose che gli si agitano nel cuore e nella mente. È stato schiavizzato. Conosce l’ingiustizia, l’emarginazione, la sottomissione, la brutalità. E ora entrerà in un’arena dove non opererà in un’ottica di vendetta, ma di giustizia, di vera giustizia, arrestando dei bianchi, alcuni dei quali sono proprio quelli che continuano ad avere quella mentalità che avevano nei suoi confronti quando la schiavitù era ancora diffusa, e che sperano che quei giorni tornino. Cosa che, in una certa misura, hanno fatto le leggi Jim Crow (leggi della segregazione razziale, ndr), si potrebbe sostenere.
Ci sono così tante cose che accadono nella sua mente. C’è così tanto conflitto. E non credo che in passato ci sia stata l’opportunità di raggiungere quel livello di complessità e densità di ciò che il personaggio ha dovuto probabilmente affrontare. La complessità del personaggio è stata la cosa su cui mi sono concentrato di più.
Le forti convinzioni cristiane di Bass Reeves sono alla base del suo punto di vista sulla giustizia e sull’uguaglianza? O si trattava anche quella di una lotta a sé, dato che la religione veniva usata come arma per giustificare la schiavitù e tenere in riga gli schiavi?
Certamente. Questo è il valore fondamentale su cui si basa il suo concetto di giustizia. Credo che senza di esso sarebbe quasi impossibile non essere più vendicativi. Direi che è stato proprio questo a formare la sua bussola morale. E mi piace il fatto che non abbiamo evitato questo aspetto. In effetti, per me è stata una delle cose che mi hanno attratto. Io stesso sono cristiano. So che questo influenza le mie scelte, la mia vita, il mio matrimonio, i miei figli, e che raramente lo vediamo. E per i neri in questo paese è una parte enorme della nostra cultura. È una parte enorme di ciò che ci guida, di come vediamo il mondo. E lo si vede in questo personaggio. Non era certo qualcosa da cui rifuggire.
Questa serie mostra molti aspetti della vita dei neri americani dopo la schiavitù: dalle leggi Jim Crown al Ku Klux Klan fino al massacro di Tulsa. Tutto questo era intenzionale? E perché era importante per lei mostrarlo nella serie?
Assolutamente intenzionale! Un altro periodo, in generale nella storia di questo paese, che mi lascia perplesso perché non si è visto di più nei film è l’era della Ricostruzione, quando si provò a uscire dalla schiavitù sulla scia della guerra civile. Un periodo ai neri è stato dato un livello di autonomia che non era mai stato concesso prima in questo paese. Ecco perché c’è stato il massacro di Tulsa (nel 1921), ecco perché ci sono state le leggi Jim Crow (1876-1965), ecco perché c’è stato il massacro di Rosewood (1923). Era un tentativo di far regredire quel progresso. Ma era un assaggio di ciò che l’America sarebbe potuta diventare, e ci sono voluti altri 100 anni, si potrebbe dire, prima che lo diventasse davvero, a causa di questa regressione.
E quindi, è stato molto importante per me, per noi, iniziare con la Guerra Civile e vedere gli inizi di questo periodo fino alle leggi Jim Crow, in cui il potere di Bass Reeves diminuisce fino a diventare un poliziotto di quartiere, niente di simile a quello che era.
Perché questa serie si chiama Lawmen? Il nome fa intuire una seconda stagione.
L’idea, in futuro, è quella di avere la possibilità di raccontare altre storie di uomini di legge della storia che dovrebbero essere raccontate e che non sono state raccontate. Credo che ci sia la sensazione, che condivido molto, che ci sia un reale potere e interesse nel raccontare storie di questo tipo su coloro che, per qualsiasi motivo, sono usciti ingiustamente dalla storia. Sarò produttore di queste storie, in futuro, e l’idea è quella di continuare a fare un buon lavoro.
Facendo parte della diaspora africana ritiene che le sue esperienze di vita, anche se è cresciuto nel Regno Unito, l’abbiano aiutata a entrare in risonanza con questi personaggi neri americani, compreso Martin Luther King in Selma?
La divisione di cui parla ci è stata imposta. La schiavitù ci è stata imposta. Non credo che noi, come persone nere, dovremmo accettare questa divisione. Siamo collegati, tutti. Siamo le stesse persone! Sì, c’è un po’ di mescolanza, ma sapete che la percentuale dei miei amici afroamericani tende a essere tra il 40 e il 50%: “Sei africano, fratello, che ti piaccia o no”. Siamo collegati. E non ho intenzione di accettare ciò che ci è stato imposto, e certamente non dal punto di vista della narrazione. Considero il mio lavoro quello di mettere davanti a uno specchio l’umanità, così come la vedo io. E ogni giorno, come farebbe qualsiasi attore, il lavoro dovrebbe essere giudicato in base ai suoi meriti.
Sono molto impegnato nella contestualizzazione di noi neri da un punto di vista globale. Ecco perché partecipo a narrazioni africane come A United Kingdom – L’amore che ha cambiato la storia e Queen of Katwe. È per questo che faccio parte di narrazioni europee, perché è in Europa che sono nato e cresciuto. È per questo che sono molto, molto coinvolto nel raccontare storie americane, un luogo che ho chiamato casa per 16 anni, di cui sono cittadino e in cui sto crescendo dei figli americani. Per me, come cittadino del mondo, cerco solo modi per continuare a contestualizzare chi siamo a livello globale come persone nere e mi rifiuto di permettere che le divisioni che ci hanno imposto dettino qualsiasi cosa io faccia e il modo in cui vedo me stesso e il mondo che mi circonda.
Traduzione di Nadia Cazzaniga
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