Dal romanzo alla serie, passando dai cortocircuiti della storia al ritmo della musica. Un incrocio di destini, un vortice del tempo, tornato d’attualità con la miniserie 22.11.63 (con James Franco), a sua volta tratta dall’omonimo romanzo di Stephen King e prodotta tra gli altri da J.J. Abrams. Ebbene, merita di tornarci, su quella serie, perché quello del suo protagonista Jake Epping alias George (aka Stephen King, certo) più che un viaggio nel tempo, è sì un braccio di ferro con la storia, ma anche una un modo per giocare a gatto e topo con il caso, con i cento, mille e centomila agguati del caso: ed è proprio attraverso la musica, il cinema e la letteratura che la storia ed il caso manifestano la propria natura inflessibile. E non è una storia qualsiasi: un viaggio agli albori degli anni Sessanta per impedire l’uccisione di John Fitzgerald Kennedy a Dallas per mano di Lee Harvey Oswald, cosa notoriamente accaduta appunto il 22 novembre 1963.
Vedi alla voce Amberson
Ma procediamo con ordine. Tanto per cominciare, sarà certamente un caso se Jake, uomo del 2011, nella sua vita tra il ‘58 e il ‘63 – nella quale si trova catapultato, appunto per evitare l’omicidio di JFK – si chiami George Amberson, come il protagonista dell’Orgoglio degli Amberson di Orson Welles. Il quale Welles, come si sa, era un maestro nell’infilarsi in mezzo alle maglie cangianti del tempo, a cominciare da Quarto Potere, esempio sommo di narrazione che corre a spirale su e giù per il tempo (ma George Amberson, nel film, è anche il simbolo della resistenza al progredire della storia, e probabilmente è stato questo ad intrigare l’astutissimo King). Ebbene, come sappiamo, nel libro del maestro King (e ovviamente nella serie) Amberson torna indietro nel tempo: per rivoluzionare il destino.
Al tempo stesso, sarà certamente un caso se uno dei figuri più loschi di 22.11.63 sia un tale che di cognome fa Roth, come Philip Roth, anche lui un esperto nella difficile arte di giocare con la storia: così, mentre Stephen King muove il racconto, anche con durezza, intorno a tutte le più sfrenate ipotesi storiche nel caso in cui Kennedy non fosse stato ucciso, nel Complotto contro l’America Roth mette nero su bianco quel che sarebbe potuto succedere se fosse diventato presidente americano l’eroe dell’aviazione Charles Lindbergh, orrendamente simpatizzante dei nazisti, con effetti che è facile immaginare sulla comunità ebraica degli Stati Uniti e sulla storia del globo.
Facile citare, a questo punto, la Macchina del tempo di H.G. Wells (che caso: autore anche de La guerra dei mondi, trasformata nel ‘38 nella più colossale beffa radiofonica della storia, ad opera di quell’altro Welles, quasi omonimo), o Indietro nel tempo di Jack Finney.
Una rivelazione targata Jagger & co
E pur tuttavia è quasi più rivelatorio il viaggio che l’autore compie nelle viscere delle sette note, le quali come si sa furono il motore globale dei mitici Sixties. Non solo cita con estrema precisioni più o meno tutti i rocker (anche i più improbabili) attivi tra gli anni Cinquanta e i primi Sessanta (prima cioè che “tutto cambiasse”, prima della grande rivoluzione delle coscienze che proprio nei giorni di Kennedy avrebbe iniziato a mutare i connotati del mondo), gente come Buddy Holly e Little Richard, fino a sfiorare i primi Beatles e citare il ben più tardo Springsteen: ma è il suono del rock dopo gli anni di Kennedy a rappresentare una delle più folgoranti chiavi di volta di tutto il romanzo.
Una delle scene clou è quando Jake/ George, nel 1963, senza rendersene conto, si tradisce canticchiando in macchina una canzone che fa infuriare la sua fidanzata, la bellissima Sadie (c’entra o non c’entra Sexy Sadie dei Beatles, 1968?). La ragazza è sconvolta: per forza, visto che la canzone narra di tale che porta “a farsi un giro” una prostituta ubriaca e subito dopo (o forse insieme?) una donna divorziata “che mi soffia il naso”… insomma, roba piena di doppi sensi nemmeno tanto doppi semplicemente impensabili, quasi terrorizzanti, nel ‘63. Ebbene, la canzone in questione era Honky Tonk Woman, dei Rolling Stones, 1969. Un pezzo più vecchio di appena sei anni, che però segna in maniera inequivocabile la fulmicotonica rapidità con la quale la storia aveva corso, in quel lustro.
Quella “piogga dura” per Kennedy
A questo punto, risulta quasi bizzarro che King non citi mai e poi mai Bob Dylan: che proprio nel ‘63 cantava The Times They Are A-Changin’ (manifesto della storia che corre), e soprattutto A Hard Rain’s A-Gonna Fall. Che non era, come spesso si dice, una metafora della catastrofe nucleare, ma semplicemente il presagio che qualcosa di grosso, ossia di spaventoso, stesse per accadere. E quello che stava per accadere, di lì a poco, fu l’assassinio di Kennedy. Sì, certo: solo un caso.
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