Nei primi tempi della loro relazione, nella miniserie L’ultima cosa che mi ha detto, Hannah (Jennifer Garner) mostra a Owen (Nikolaj Coster-Waldau) il suo laboratorio per la lavorazione del legno. “La prima lezione è che ogni buon pezzo di legno ha una sua caratteristica, una qualità, che lo definisce”, dice lei, in piedi accanto a uno scaffale pieno di blocchi assortiti che aspettano di essere trasformati in delicate ciotole o urne. A lui piace l’idea e fa un ulteriore passo avanti. “Probabilmente si potrebbe dire la stessa cosa della maggior parte delle persone”, riflette. “Alla fine dei giochi, c’è sempre un dettaglio che le definisce”.
Se questo sia vero per le persone reali è una questione che spetta ai filosofi o agli psicologi risolvere. È certamente vero per loro due, però, e per quasi tutti i protagonisti de L’ultima cosa che mi ha detto, su Apple TV+ dal 14 aprile. Sotto certi punti di vista, la loro unità d’intenti appare rinfrancante, persino stimolante; trasforma quello che avrebbe potuto essere un semplice racconto di suspense in un’inaspettata e tenera celebrazione dell’amore. Ma appiattisce anche la storia fino a renderla una superficie lucida e brillante.
L’ultima cosa che mi ha detto: poco avvincente
Ideato dagli autori Laura Dave e Josh Singer, fedele trasposizione del romanzo bestseller della stessa Dave, L’ultima cosa che mi ha detto inizia con un mistero affascinante. In un giorno che sembrerebbe come tutti gli altri Owen scompare senza lasciare tracce, seminando solo qualche piccolo indizio: una grossa borsa di denaro e un paio di biglietti criptici per Hannah, sua moglie da un anno, e per Bailey (Angourie Rice), la figlia adolescente avuta da un precedente matrimonio. All’apparenza, l’uomo è in fuga da un’indagine federale su una frode orchestrata dall’azienda informatica per la quale lavora. Eppure Bailey e Hannah non riescono a togliersi di dosso il sospetto che la sua sparizione nasconda qualcosa.
Trattandosi di una miniserie da sette episodi di un’ora, ovviamente hanno ragione. Più si scava a fondo per capire chi fosse davvero Owen e cosa stesse facendo, meno i conti sembrano tornare. L’ultima cosa che mi ha detto ha un ritmo costante, con colpi di scena che si susseguono a intervalli regolari e svolte che alzano il livello di follia una tacca alla volta. Nonostante alcuni degli sviluppi della storia mettano a dura prova la credibilità dello spettatore (gran parte della trama si basa sulla capacità di un bambino molto piccolo di conservare una memoria dettagliata), il pubblico è pronto di volta in volta ad aspettarsi anche l’inaspettato.
Un dramma poco avvincente ma perfettamente godibile: gran parte dell’azione iniziale si svolge in una casa galleggiante di Sausalito così bella, e in un’area talmente incontaminata, che Hannah e Bailey potrebbero benissimo essere i protagonisti di un tour dell’Architectural Digest.
Una vita (quasi) perfetta
Sotto questa patina di buon gusto, tuttavia, si nasconde un senso di insipidezza pervasivo – nei personaggi, nelle loro relazioni e nelle imprevedibili svolte della storia. Owen è rappresentato come un inverosimile marito e padre ideale, le cui uniche colpe sarebbero quelle di essere ancora troppo addolorato per la perdita della precedente compagna per parlarne, e troppo protettivo nei confronti della figlia per permetterle di andare in vacanza con il fidanzato (John Harlan Kim). Hannah è quasi perfetta, una moglie e matrigna premurosa che offre a Bailey cure incondizionate e infiniti panini al formaggio grigliato, anche quando Bailey rifiuta ogni sua iniziativa, come vuole lo stereotipo dell’adolescente scontrosa.
Gli interpreti centrali aggiungono profondità a personaggi unidimensionali. Garner stempera la dolcezza di Hannah con quel tanto di durezza che basta a renderla una convincente mamma orso, e non solo una moglie spaventata. Rice infonde all’angoscia adolescenziale di Hannah la vulnerabilità adatta a renderla simpatica, e non indigesta, allo spettatore (la serie le assegna alcune delle battute più incisive, come quando Owen la supplica gentilmente di “impegnarsi di più” con Hannah, e Bailey risponde: “Mi dici sempre che se non hai niente di carino da dire…”). Nel momento in cui L’ultima cosa che mi ha detto sposta l’attenzione dello spettatore dalla sorte di Owen al legame tra sua moglie e sua figlia, l’avvicinamento fra le due viene raccontato per gradi, senza conflitti o inutili sentimentalismi.
Fare tutto per una figlia
Evitando il più possibile la conflittualità, tuttavia, la serie finisce per rendere più teoriche che reali le importanti dinamiche familiari in atto. Non aiuta il fatto che la scomparsa di Owen avvenga all’inizio del racconto, concedendo allo spettatore poco tempo per conoscere i protagonisti prima che vengano travolti dagli eventi. Sebbene L’ultima cosa che mi ha detto racconti anche i giorni e gli anni precedenti alla scomparsa di Owen – a un certo punto si viaggia così tanto nel passato che il volto inquietantemente sfigurato di Coster-Waldau diventa un caso di studio sui limiti della computer grafica anti-invecchiamento – questi momenti vengono per lo più avvolti dal bagliore dorato della nostalgia, e resi ancora più nebulosi dall’incertezza del presente.
Per quanto riguarda Owen, quando Hannah gli chiede quale sia la cosa che lo definisce, non può che rispondere che è l’amore per Bailey: “Non c’è niente che non farei per mia figlia”, dice, con la voce che passa da civettuola a seria. È questo amore genitoriale, puro e senza limiti, che diventa il punto di riferimento per i personaggi attraverso le prove più estreme della vita. Anche le loro motivazioni sono facili da capire e impossibili da osteggiare. Ma senza difetti ad aggiungere consistenza, la perfezione si rivela piuttosto noiosa.
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