L’arte del saper perdere. È davvero un’arte, a tutti gli effetti. Ed è anche vero che nessuno vorrebbe essere il perdente della storia, men che meno della propria. A un certo punto nemmeno Loki lo ha più voluto, tanto da finire per decidere di passare dalla parte dei buoni del Marvel Cinematic Universe (MCU, per gli amici). Dopo è finito alla TVA (Time Variance Authority, che monitora le linee temporali della Marvel) e lì gli è stato ridetto che no, non poteva essere l’eroe. Non lo è, non lo è mai stato e non importa se, dopo più di dieci anni dalla sua prima apparizione in Thor, gli hanno dato una serie col suo nome. Non è un eroe.
La prima stagione di Loki si basava sul poter scrivere autonomamente il proprio destino. Su chi desideriamo essere e su cosa fare per raggiungere l’ideale che ci siamo prefissati. Loki combatte l’etichetta che gli viene affibbiata. Lui lo ha capito che può cambiare, lo ha visto, lo ha fatto, non serve che Mobius – semplice dipendente della TVA, o riferimento velato a quel Moebius fumettista che della fantascienza, dalle collaborazioni con Alejandro Jodorowsky e Stan Lee, fu maestro? – gli faccia rivivere i traumi di quando era ragazzino o il rapporto con la madre per fargli capire di essere il villain (un accenno che, inoltre, torna anche nell’ultima puntata della seconda stagione).
Per tutta la prima parte della sua esperienza seriale, il dio dell’inganno ha lottato per comprendere e far comprendere che cambiare è possibile. Che non siamo il modo in cui le persone ci descrivono, e senza dubbio non dobbiamo essere come loro ci vogliono. Siamo semplicemente quello che siamo, e siamo noi – solo noi – a deciderlo.
La seconda stagione sposta il focus di Loki, pur mantenendo dritta la rotta del fato. Stabilito che non veniamo forgiati dalle parole altrui, i personaggi si interrogano sul libero arbitrio, su chi dovrebbe esercitarlo o meno, generando paradossi insormontabili proprio partendo da simili domande.
Il tema della stagione è sul chi può e chi non può scegliere, e si arriva al punto in cui Loki sente di poter legiferare su tale diritto, imparando a gestire i suoi salti temporali fino ad esercitare a pieno il suo ruolo – forse per troppo tempo abbandonato – di dio. Ed è emblematico che colui che finalmente può diventare l’eroe, il vincitore, per raggiungere lo status che tanto aveva sperato deve comunque perdere. Per salvare tutti deve sacrificare se stesso.
Loki, quanto è tragico il destino di una divinità
Riflettendo ancora una volta sul significato del proprio stare al mondo – nei mondi, nell’universo, negli universi, nei multiversi. Nella Marvel, insomma – non è importante se il viaggio di Loki nella serie sia avanti, indietro, nel passato o nel presente. E fa poco la differenza se la trasformazione del protagonista – e di chi lo osserva – è fuori o dentro se stesso. La soluzione all’equazione non cambia. Perdere è la sola vittoria.
Non è un caso che l’impostazione del lignaggio dei discendenti di Odino ha sempre avuto un’elevazione tragicomica, dai tocchi volutamente shakespeariani (il primo film, non a caso, era diretto da Kenneth Branagh, attore britannico del Bardo per antonomasia). Il finale – ma finale lo è davvero? – di Loki doveva rispettare la struttura che dal principio era stata tratteggiata. Doveva togliere ancora una volta tutto a Loki, affinché potesse compiere a pieno il proprio destino.
E lui ha vinto, ma solamente perché ha perso. Ha capito che tipo di dio vuole (deve?) essere e, per abbracciarlo a pieno, deve abbandonare ogni cosa. La libertà inaspettata, gli amici trovati, la prospettiva di una storia tutta da (ri)scrivere. Potersi reinventare da capo, per raggiungere sempre la medesima fine. Ma allora, è lecito chiedersi, esiste davvero questo libero arbitrio?
Il cinema e la serialità ce lo hanno insegnato, ai perdenti non si può che volere bene. È anche per questo che Loki è stato da subito tra i personaggi preferiti del MCU – grazie inoltre all’aiuto dell’interprete Tom Hiddleston. Ma pochi, come la divinità della mitologia norrena, hanno saputo trasmettere un tale senso di impossibilità nel poter scappare da ciò che è stato intessuto lassù, nel Valhalla – in questo caso soprasseduto dal presidente dei Marvel Studios, Kevin Feige (ma lo abbiamo visto anche nel cinema autoriale, con la profezia impossibile da piegare del vichingo di The Northman, 2022, di Robert Eggers).
Il senso della perdita di Loki non sarà mai simile agli altri grandi perdenti della storia, perché si avvicina al divino, e come perde un dio non perde nessun altro. Non c’è miseria, goffaggine, quel pizzico di simpatia che proprio il perdente può suscitare. Non è il perdente da sitcom che diventa un adulto con una carriera promettente e che conquista il partner dei suoi sogni.
La caduta di una divinità è solenne, piena di rassegnazione. E lo è anche il finale della seconda stagione di Loki. La conclusione di tutto? L’accettazione del proprio fallimento. Costante, inevitabile. È il perdente che per vincere deve ritrovarsi senza niente. A parte i destini del mondo chiusi nel palmo delle proprie mani.
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