Costa Concordia, Isola del Giglio. 12 gennaio 2012. Dodici anni dopo. Come il ponte Morandi che crolla, quell’avvenimento, quelle immagini buie e terribili sono ancora dentro di noi. Per il dolore che hanno portato, ma anche per l’assurdità dell’evento, per l’incredulità con cui eravamo davanti alla tv a non farcene una ragione.
Ancora non riusciamo davvero a concepire come quella nave da crociera si abbatté come un mostro colossale e stanco in quella lingua di Tirreno davanti a una delle isole più belle d’Italia. Quell’assurdità quasi beckettinana è ancora nel nostro immaginario. Come, perché, sia stata portata fin lì dalla vanità di due uomini, dalla vigliaccheria di altri che non li hanno fermati, dalla leggerezza di una società che ha lasciato migliaia di persone, chissà per quanti anni, in balia di motori di emergenza che non si sono accesi, personale non all’altezza, procedure fallaci.
La Costa Concordia, se si deve credere alla cabala – e chi va per mare è superstizioso, eccome – muore nel suo diciassettesimo anno d’età, il 13 gennaio, all’alba di un venerdì affonda definitivamente. Quel 13 nemico di ogni marinaio, tanto che persino sulla Costa Concordia il ponte 13 non c’era.
Anche se non c’è più, ce la ricordiamo ancora, piegata verso riva, a occupare lo skyline di quell’orgoglioso pezzo di terra in mezzo al mare, tanto amato da turisti e pescatori. E divenuto preda, invece, dei selfisti da tragedia, quelli che prendevano il traghetto solo per fotografarsi con il relitto sullo sfondo, quelli che ad Amatrice hanno costretto un’amministrazione a piantare un segnale da far vergognare tutti noi: No Selfie! Luogo di Rispetto, recitava.
Per più di due anni è rimasta lì, a ricordarci l’orrore di una serata di festa divenuta tragedia. A sempiterna memoria, come recita la targa sul molo, di chi è passato da una cena, uno spettacolo, un ballo, un incontro elegante in tacchi a spillo e giacca e cravatta, un compleanno da festeggiare, una pensione da celebrare dopo tanti sacrifici al panico puro, all’homo homini lupus di branchi di persone divenute, in alcuni casi, bestie in lotta per la sopravvivenza, in altri eroi, perché, lo ha detto chiunque sia sopravvissuto, “ho fatto solo ciò che si doveva fare”.
Morirono 32 persone. Nessuna in seguito all’impatto, tutte a causa di una tardiva chiamata dell’emergenza generale (più di 40 minuti, con tanto di comunicazioni mendaci su un problema tecnico, un black out) e ancor più lenta dichiarazione di abbandono della nave (1 ora e 9 minuti).
Si potrebbe, forse si dovrebbe girare un film in tempo reale solo su quegli 80-100 minuti successivi all’impatto o su quelle ore che passano tra l’incidente, assurdo, per un inchino, pratica grottesca tra il pubblicitario e lo sfoggio di incoscienza, per di più fuori stagione a un’anziana signora che non l’avrebbe mai visto perché “quella sera faceva troppo freddo”, e le drammatiche, eroiche, confuse, spietate operazioni di fuga e salvataggio.
La realtà, per una volta, è stata più veloce della ricostruzione cinematografica. Un processo ha esaurito tre gradi di giudizio in soli 5 anni – il processo breve è quindi possibile anche senza riforme del sistema giudiziario – e ha visto condannare il colpevole perfetto: Francesco Schettino il comandante vigliacco che non è tornato a bordo, cazzo, si è visto imputare e riconoscere l’omicidio colposo e 16 anni di pena che sta scontando a Rebibbia, mentre Costa Crociere ha potuto e saputo uscire dal giudizio penale ottemperando agli obblighi necessari per farlo e dedicandosi ai risarcimenti civili.
In alcuni casi, imbarazzanti: per molti, che per dimenticare hanno accettato la prima proposta dell’armatore, ci sono stati 11.000 euro, di cui 5.000 per gli avvocati. Un’utilitaria è il valore del dolore fisico e morale di chi tuttora è in cura per i danni fisici subiti e per i traumi psicologici, gran parte dei 110 feriti di quella notte.
Tra loro chi cercava successo e affermazione per un talent così come Manrico Giampedroni, tra i pochi dell’equipaggio a salvare uomini e donne fino a trovarsi per 36 ore con le gambe rotte, ultimo insieme a una coppia di novelli sposi coreani a essere salvato, ma comunque condannato a due anni e due mesi per la gestione dell’emergenza. Era sulla plancia di comando, quando successe l’irreparabile.
Ma è incredibile che una vicenda così paradossale e assurda, ma anche grandiosa nelle dimensioni della tragedia avvenuta, della spettacolarità dell’incidente e degli atti di coraggio, di vigliaccheria e superficialità che l’hanno circondata, non abbia trovato un grande narratore dietro una macchina da presa. Quasi fosse qualcosa di troppo lacerante per il tessuto motivo collettivo per essere rappresentato.
Di quella strage in mare, anzi in nave (sono tutti morti all’interno dell’imbarcazione), ci è rimasto il bellissimo e devastante documentario Costa Concordia – Cronaca di un disastro, diretto da Michael Müller (la maggior parte delle vittime furono tedesche) e scritto da Mariangela Barbanente (che ricordiamo tra le altre cose per aver scritto con Braucci e Di Costanzo L’intervallo e per aver codiretto con Cecilia Mangini il bello e prezioso In viaggio con Cecilia) e due podcast. Dei migliori, va detto: Matteo Caccia e Pablo Trincia.
I podcast sul naufragio della Costa Concordia davanti all’Isola del Giglio
Il giorno in cui una docuserie – forse il genere più adatto a un racconto di questo tipo – o un film di finzione si avvicineranno a questo evento inimmaginabile, dovranno partire dai podcast che le hanno dedicato i due assi di questo mezzo: Matteo Caccia e Pablo Trincia.
Più narrativo, empatico, antiretorico il primo, alla ricerca dell’eredità sentimentale, quasi antropologica che ha lasciato quest’evento.
Più investigativo, sistematico, epico, d’inchiesta il secondo.
Più essenziale e verace, con la propria voce registrata male a far capire che si è li, su quelle pietre e quel mare, il lavoro del primo; produttivamente, musicalmente, giornalisticamente rigoroso e ricercato il secondo, fino all’ultimo rumore, respiro, nota. Due primi violini che suonano in modo diametralmente opposto, ma con grande talento e passione.
Tranne poche sovrapposizioni – il vicesindaco Mario Pellegrini che sale sulla nave e salva decine, forse centinaia di persone, l’aneddoto di Matteo e il bambino prima salvato e poi strappato quasi via dalle sue braccia dai genitori, poco altro – i due, senza dirselo, si rendono complementari.
Il mondo addosso di Caccia racconta l’impatto emotivo, ben più forte di quello fisico, pur clamoroso e sconvolgente, dell’evento sull’isola e gli isolani.
Ci porta all’Isola del Giglio. nove anni e mezzo dopo il fatto. Ci fa piombare con naturalezza in mezzo a quella solidarietà normale da uomini di mare, che quasi si vergognano a raccontarla e per questo risulta ancora più potente e commovente. Perché quelle donne e uomini impastati nello stesso granito che costituisce gran parte della loro terra e di quelli scogli che la nave non ha saputo rispettare, non hanno dimenticato. Ricordano i loro morti, perché non lo dicono, ma non riescono a sanare il dolore di non averli salvati.
Loro che hanno fatto tutto il possibile, e pure tutto l’impossibile. Loro, che sono saliti a bordo di loro spontanea volontà. A volte riportando indietro le scialuppe abbandonate sulla riva, sugli scogli o al porto.
Lo dice uno degli intervistato, che “quella nave aveva decine di schettini” perché a riva arriva tra le prime una lancia, dal ponte 3, con tanti graduati, sono pochi (da Canessa a Iaccarino, eroi veri) quelli che rimangono a bordo e mettono in pericolo la propria vita per salvare quelle altrui. Di cui, come equipaggio, sentivano giustamente la responsabilità.
Quella di Caccia è la geografia di un’empatia naturale, di una comunità a cui cade il mondo addosso, appunto, e non si scansa, ma lo tiene sulle proprie spalle. Di un’isola che non ha paura di trasformarsi in Atlante e sorridere, perché in fondo, è giusto così. Per un’isola che non passa anno che non ricordi quei 32, anzi 33.
Quella nave è diventata una parte di ognuno degli 800 cittadini che al Giglio ci stanno tutto l’anno, un attrattore di uomini ed eventi di cui quasi sentono la mancanza, perché i gigliesi hanno accolto tutti, vittime e giornalisti, superstiti e persino il colpevole in uno dei suoi hotel e soccorritori, e li hanno adottati, come Kevin Rebello, fratello di Russel, il cui corpo è stato trovato solo dopo quasi tre anni, in cui Kevin ha aspettato, spesso sul molo, a guardare la nave e meditare.
E i gigliesi, discreti, gli sono stati accanto. Non l’hanno mai lasciato solo. E a volte ti chiedi perché, ad esempio, non facciamo in modo che quella comunità abbia la luce che merita. Che possa essere, magari, la prossima capitale europea della cultura. Che diventi la sede di un ente europeo nautico. Qualcosa che renda tangibile la loro grandezza.
Tutti. L’autore del podcast ha un garbo arguto, sa mostrare certi dettagli più e meglio di altri, come quelle lettere di ringraziamento che arrivano a coloro che hanno fatto di più per i naufraghi, quasi sempre accompagnate da un dolce tipico del luogo del sopravvissuto, chissà perché. Un dolce, per tornare alla purezza di bambini, probabilmente. Un dolce, perché quel piacere è tra i più intimi e puri che abbiamo.
Trincia, invece, con il suo Il dito di Dio (spoiler: persino uno scienziato ateo ammette al buon Pablo che la combinazione di venti, correnti e casualità di quei minuti immediatamente successivi all’impatto sembrano il dito di Dio che sistema la nave nel modo meno pericoloso possibile per un enorme natante che ha uno squarcio di decine di metri e tutti i motori in avaria e davanti il mare aperto), ci fa rimanere sulla nave, tra superstiti e parenti delle vittime che raccontano, come in un puzzle l’angosciante crescendo di una tragedia che si poteva evitare e che hai suoi eroi e i suoi infami, ma anche le sue zone oscure.
Senza puntare il proprio, di dito, Trincia con il suo talento adamantino trova legami, incrocia dati, ci mostra, senza alzare la voce, come e quanto chi ha armato quella nave, chi ha permesso che a guidarla fossero persone irresponsabili e/o non abbastanza formate (il timoniere, indonesiano, poco prima inserviente e ora sulla sedia più importante a eseguire ordini che capisce appena), chi debba provare la stessa vergogna di uno Schettino, la cui debolezza vigliacca è la vera colpa, più ancora della folle scelta di lambire una costa con una manovra folle.
Ci racconta tutto e tutti, anche di quel Ferrarini, che Schettino, fino a quel momento comandante stimato e persino celebrato per la sua bravura – neanche tre settimane prima, sul Nouvel Observateur si trova protagonista di un articolo elogiativo per aver domato venti e maltempo a Marsiglia – sente quattro volte al cellulare in un’ora, quell’ora, e che è il suo referente nella società Costa Crociere.
Uno che se n’è uscito dal processo con il minimo dei danni (due anni e 10 mesi), che ha dichiarato la sua estraneità e di cui sappiamo poco, perché le registrazioni riportano solo le parole del comandante di Meta di Sorrento. Uno, Roberto Ferrarini, che sicuramente non ha indotto Schettino ad agire meglio di come ha fatto ma che comunque, nella compagnia, ha fatto carriera e ora è nelle posizioni di vertice.
Ma la nostra sete di vendetta e giustizia si è placata con quei 16 anni per omicidio plurimo colposo al comandante playboy, meglio avere il mostro che si era portato l’amante in plancia (moldava, perché il terrone con la donna dell’est aiuta la narrazione di chi vuole semplificare tutto passando per gli stereotipi che la comunicazione di massa ama e solletica) e che accontentava il cuoco nei suoi capricci filiali, invece di scoprire che il problema era (è stato? è?) sistemico e ben più profondo.
A 12 anni da quella tragedia è necessario ricordare. Perché a pensarci bene il nostro immaginario è stato occupato militarmente dall’imponenza della tomba di quelle 32 vittime (33, se si conta il sommozzatore spagnolo, Israel, morto sul lavoro durante i mesi di recupero), così fotogenica e emblematica. Una nave immensa, piegata su se stessa. Un gigante dai piedi d’argilla che dal lusso estremo è passato al lutto collettivo.
Quella nave non ci ha regalato le istantanee dei 4000 naufraghi al porto, delle decine di gigliesi che hanno fatto miracoli per salvarli, proteggerli, riscaldarli dentro e fuori. Il prete, la mamma-nonna, l’albergatore, il vice-sindaco, la ristoratrice, non ci ricordiamo il loro viso. E invece dovremmo, ma dentro di noi rimane solo quell’immagine assurda. Ingombrante. Ora, almeno, conosciamo le loro voci.
Non solo Costa Concordia
Chi ha l’età di chi scrive lega alle navi due eventi clamorosi, entrambi del 1991: la marea umana, 20.000 persone, che sbarcano a Bari dalla nave dolce (come viene chiamata nell’omonimo, bellissimo documentario di Daniele Vicari).
O le fiamme lontane, anch’esse nel buio, della Moby Prince, che si scontra con la petroliera Agip Abruzzo ed è tuttora una delle tragedie più opache e dolorose della nostra storia. Ma in entrambi i casi ricordiamo le persone, più delle navi. Quelle che irrompono in una città che le accoglie, quelle che rimangono imprigionate dalle fiamme.
Qui no, quell’infrastruttura galleggiante che valeva un grattacielo, ci ha fatto quasi dimenticare chi ha inghiottito. Questi due podcast, e un documentario, ce li restituiscono. Tra le lacrime, di chi racconta. E di chi ascolta. O guarda.
C’è una targa, al Giglio, semplice, che li ricorda tutte quelle vittime – molte delle quali eroiche – che non ce l’hanno fatta. E due anni fa, nel pieno di una tragedia collettiva e sociale, oltreché medica, due giornalisti di razza ci hanno aiutato a ricomporre la nostra memoria storica. Dopo un decennio. Anzi a costruirla.
Sull’altare di quel lusso a buon mercato che andò a fondo per l’arroganza vanesia di qualcuno, per la sete di guadagno di altri, furono sacrificati persone normali che potevano essere salvate. Morirono per la vigliaccheria di un singolo e chissà, forse anche per un banale conto di bilancio. Ci hanno ricordato che su quella nave c’erano persone non così diverse da noi che non sono degni di essere definiti esseri umani (anche se è vero, come disse a Pellegrini il medico di bordo Cinquini “non insultarli, non lo vedi? Hanno solo paura”), ma anche che altre hanno superato ogni limite del coraggio umano per salvare dei propri simili.
Ci hanno ricordato che su quell’isola, nessuno si è tirato indietro. Nessuno è stato egoista. Anche se un naufrago ha portato via un cappotto di Valentino e altri negli alberghi hanno staccato pure le tende, per ripararsi dal freddo.
I gigliesi hanno aperto porte, frigoriferi, armadi e soprattutto cuori per settimane (la protezione civile arriverà solo 12 giorni dopo, tutti particolari che dovevamo conoscere e grazie a Caccia, che lì ha costruito anche un evento pubblico perché anche loro riconoscessero il loro valore, anche loro facessero pace con quella notte): hanno salvato prima i corpi e poi le anime di chi aveva perso tutto. Di chi aveva paura di tornare in terraferma, perché doveva prendere un traghetto, tornare su quell’acqua che doveva essere l’orizzonte del suo divertimento ed è diventato l’abisso del loro dolore.
E Mario Pellegrini, è il simbolo di tutti loro. Lui che sembra raccontare con leggerezza il suo eroismo – così come fece, sempre con Caccia, Karim Franceschi – e a un certo punto confessa che tornato sulla Concordia, mesi dopo, si bloccò. Si rese conto di ciò che aveva fatto. Arrivò allora la paura e lo racconta con la naturalezza con cui in Russia si ritrova a scherzare con Riccardo Fogli durante una cerimonia che li vede premiati per aver salvato tanti loro concittadini.
Ogni 12 gennaio, alle 21.45, cominciate a vedere il documentario, o iniziate quei podcast. Poi leggete i nomi di chi non può più raccontarsi.
E che Trincia, soprattutto, ricorda anche da vivi. Il gigante violinista, il colosso buono. Sandor. La mamma coraggio, Maria Grazia. Il batterista Giuseppe, che lascia il suo posto sulla scialuppa a un bambino. Abbiamo bisogno di loro e di altri narratori ancora. Che ci raccontino di Gabriele Grube, ad esempio, di chi ha lasciato come ultima immagine di sé l’ostinata insistenza nel rinunciare alla propria salvezza per regalarla a tre disabili.
Le vittime della Costa Concordia
Dayana Arlotti, 5 anni. Williams Arlotti, 36 anni. Elisabeth Bauer, 79 anni. Michael Blemand, 25 anni. Tomás Alberto Costilla Mendoza, 49 anni. Maria D’Introno, 30 anni. Sandor Feher, 38 anni. Horst Galle, 66 anni. Josef Norbert Ganz, 72 anni. Giuseppe Girolamo, 30 anni. Jeanne Gregoire, 70 anni. Pierre Gregoire, 69 anni. Gabriele Grube, 52 anni. Guillermo Gual, 69 anni. Barbara Heil, 70 anni. Gerald Heil, 70 anni. Egon Hoer, 74 anni. Mylène Litzler, 23 anni. Giovanni Masia, 86 anni, che ha amato la moglie oltre l’immaginabile. E le ha dedicato l’ultimo pensiero, prima di sparire nel buio perché si salvassero figlio e consorte. Christina Mathi Ganz, 72 anni. Jean-Pierre Micheaud, 62 anni. Margarethe Neth, 70 anni. Russel Terence Rebello, 33 anni, l’ultimo a essere stato trovato, cadavere, a Genova, durante lo smantellamento finale della nave. Quello più ricordato: tanti hanno rammentato la sua gentilezza nel lavoro, la generosità con cui ha aiutato chiunque possibile. E ancora Inge Schall, 72 anni. Margrit Schroeter, 60 anni. Francis Servel, 71 anni. Erika Fani Soria Molina, 35 anni. Siglinde Stumpf, 67 anni. Maria Grazia Trecarichi, 50 anni. Una donna speciale. Elio, Stefania, vi vogliamo bene. La sua amica del cuore, Luisa Antonia Virzì, 49 anni. Bruhild Werp, 68 anni. Joseph Werp, 73 anni.
Israel Franco Moreno, 40 anni. Originario della Spagna, sommozzatore, è deceduto mentre stava lavorando sotto il relitto della Costa Concordia all’Isola del Giglio.
THR Newsletter
Iscriviti per ricevere via email tutti gli aggiornamenti e le notizie di THR Roma