“Alcuni ridevano, altri piangevano. Gli altri, la maggior parte, rimanevano in silenzio”. Così disse Julius Robert Oppenheimer per descrivere “quelli che c’erano” nell’esatto momento della detonazione della prima bomba atomica, quella del Trinity Test. Era il 16 luglio del 1945, le 5.29 del mattino, quando una sorta di immenso sole rosso – il sole dell’apocalisse – oscurò il cielo del deserto del New Mexico. La Germania nazista aveva già perso la guerra ed era un cumulo di macerie, portando in dote centinaia di scienziati rapidamente inglobati nelle istituzioni di ricerca americane, il resto del mondo rimase in silenzio sgomento, il Giappone era condannato.
Perché la storia correva veloce: ventuno giorni dopo, il 6 agosto, un’altra bomba nucleare – chiamata Little Boy, la prima fatta di uranio – eliminò la città di Hiroshima dalla faccia della terra (l’inferno arrivò a bordo dell’Enola Gay alle 8.14 e 45 secondi, l’esplosione si verificò a 580 metri dal suolo, con una detonazione equivalente a sedici chilotoni, uccidendo sul colpo tra le 70 mila e le 80 mila persone), altri tre giorni, e fu Nagasaki ad essere cancellata dall’universo con lo sganciamento di Fat Man, la bomba al plutonio. E proprio a J. Robert Oppenheimer è intestata la paternità della più terrificante svolta di cui l’umanità potesse essere capace: quella dell’autodistruzione assoluta, quella dell’apocalisse auto-inflitta, per propria scelta e propria capacità.
Ed Oppenheimer lo sapeva. “Io sono diventato la morte, il distruttore del mondo”, disse lo scienziato americano – figlio di un ebreo tedesco emigrato nel 1888 da Hanau, delicata cittadina dell’Assia – citando un verso della Bhagavad-Gita mentre la gigantesca nube a forma di fungo s’imprimeva nel suo sguardo.
Oppenheimer: i fisici hanno conosciuto il peccato
“I fisici hanno conosciuto il peccato”, ribadì, dopo Hiroshima. Enigmatico, appassionato di psicanalisi, gigante nella ricerca sulla meccanica quantistica, teorico del comportamento della materia, Oppenheimer, il padre dell’atomica, come lo chiamano. Un protagonista tragico del XX secolo, un uomo che porta sulle proprie spalle l’ombra dell’armageddon. Una figura paradossale, costantemente in bilico tra la minaccia dell’estinzione e l’impressione di lavorare per la pace. Christopher Nolan ha scelto Cillian Murphy per raccontare la sua faccia nel film Oppenheimer – di cui parliamo qui – ed è proprio questa sua tragedia il tema della pellicola, la tragedia del mondo che detiene un immenso potere di distruzione, di autodistruzione.
Come si sa, è una storia che comincia prim’ancora del conflitto, quando sul tavolo di Franklin Delano Roosevelt compare una lettera firmata Albert Einstein e Niels Bohr. I due fisici spiegano al presidente americano che i volonterosi scienziati di Hitler erano già da tempo impegnati in ricerche di natura nucleare volte allo scatenamento di una quantità inimmaginabile d’energia con lo scopo di farne un’arma di distruzione totale (ci proveranno fino agli ultimi giorni di guerra, i nazisti, anche con progetti segreti… ma questa è un’altra storia). Un potere assoluto di morte, in mano al Terzo Reich? Era questo l’abisso della civiltà?
Vita e morte del pianeta
È così che che nasce l’idea del Progetto Manhattan, programma di natura scientifica e militare il cui obiettivo è quello di permettere agli Usa di realizzare una bomba atomica prima che ci arrivino i nazisti. La parte scientifica viene affidata al misterioso signor Oppenheimer, appena trentottenne. E su sua proposta che nel 1943 viene tirato su dal nulla il villaggio di Los Alamos, dove oltre 3000 scienziati si trovano gomito a gomito a far correre gli Stati Uniti nella gara che li vede contrapposti alla Germania hitleriana (direttamente o indirettamente sono 150 mila gli scienziati e tecnici coinvolti nel Progetto Manhattan, il più colossale sforzo scientifico della storia). Pochi dubbi: chi avrà per primo il controllo dell’arma “definitiva” determinerà la vita e la morte del pianeta. Niente di più, niente di meno.
Il paradosso della vicenda di Oppenheimer sta tutto qui, in una manciata di domande. E’ necessario avere per primi la bomba atomica per fermare una possibile apocalisse nazista, per mettere fine al più grande conflitto della storia? Ma, allo stesso tempo, non aprirà, la bomba, un pauroso varco alla distruzione totale, definitiva? “Farò ulteriori raccomandazioni al Congresso su come l’energia atomica possa diventare un’influenza potente e vigorosa per il mantenimento della pace nel mondo”, sostiene il presidente Truman in una dichiarazione ufficiale diffusa lo stesso 6 agosto, poche ore dopo Hiroshima. Affermazione di sapore sulfureo, di fronte alle immagini che arriveranno dalla città portuale del Giappone sud-occidentale.
Oppenheimer non riuscirà mai a liberarsi dalla morsa di questo paradosso. Dopo Hiroshima e Nagasaki, avvia una campagna per allertare l’umanità circa i rischi connessi all’utilizzo delle armi nucleari, un impegno per il quali si vede affiancato da non pochi colleghi scienziati di primissimo rango. E questo mentre lui stesso assurge allo status di una star: la sua immagine iconica finisce sulla copertina di Time, lui diventa un consigliere politico richiestissimo. Angosciato per il pericolo potenziale a cui l’intera umanità è esposta, si unisce ad Albert Einstein, Bertrand Russell, Joseph Rotblat e ad altri eminenti scienziati e accademici per fondare ciò che diventerà, nel 1960, la World Academy of Art and Science.
Le ire del governo (e dell’FBI)
Ma, ancora una volta, le cose non sono così semplici: proprio perché gli sembra una nuova accelerazione verso l’apocalisse, da una parte Oppenheimer si rifiuta di partecipare allo sviluppo della bomba ad idrogeno – attirandosi le ire del governo e dell’FBI, con sospetti più o meno espliciti che sotto sotto non faccia la spia per Mosca, date anche le sue passate simpatie di sinistra, con tanto di audizione-processo, al termine del quale viene costretto a lasciare la presidenza della Commissione per l’energia atomica – dall’altra, dopo questa sua umiliazione pubblica, non sostiene le principali azioni di protesta contro le armi nucleari degli anni Cinquanta. A cominciare dal “Manifesto Russell-Einstein” del 1955, sostanzialmente un appello al disarmo nucleare, quello famoso soprattutto per una frase: “Come esseri umani ci rivolgiamo agli esseri umani: ricordate la vostra umanità e dimenticate il resto”.
Il mondo lo ricorda così, Oppenheimer: coscienza dilaniata, lo sguardo spiritato, gli occhi sgranati, il cappello a tesa larga calato basso sulla fronte, il dubbio di essere responsabile della distruzione di Hiroshima e Nagasaki, ossia della più grande frattura dell’umanità dopo l’Olocausto, l’angoscia di aver aperto il varco alla fine di tutto. Ma forse lui la conosceva sin dall’inizio la verità. “Sapevamo che il mondo non sarebbe più stato lo stesso”, aveva detto quando la nube nucleare si era depositata sul terreno del New Mexico. Il potere di sterminio del XX secolo – che è la sua natura profonda, il marchio che lo caratterizza – è scritto anche nei suoi occhi disperati.
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