Una nave passeggeri che pare un palazzo bianco in mezzo al mare, 5000 ospiti a bordo, cento cuochi che preparano macedonie “belle come fiori” per le coppie, le famiglie, i bambini che hanno pagato per “vivere un sogno”. Quello un po’ pacchiano della crociera, con il bel capitano che ti si siede al tavolo, la piscina azzurra sul ponte, il piano bar con le canzoni da cantare al gioco aperitivo. Un viaggio organizzato, quello della nave Orizzonte, che viene turbato da un accadimento imprevisto: il salvataggio in mare di 28 persone, naufraghi di un barcone diretto dall’Africa verso le coste italiane, fatte salire a bordo in attesa di definire – legalmente – il loro incerto destino. Sono queste le premesse – “altamente politiche”, spiega lo sceneggiatore Stefano Bises – della serie in otto episodi Unwanted – Ostaggi del mare, su Sky e NOW dal 3 novembre, prodotta da Sky Studios con Pantaleon Films e Indiana Production e liberamente tratta da Bilal, il libro inchiesta del giornalista Fabrizio Gatti pubblicato nel 2007. Alla regia il tedesco Oliver Hirschbiegel, nel cast Marco Bocci e Jessica Schwarz.
Una serie “altamente politica”. Perché?
Bises: Perché raccontiamo esattamente come un governo possa provare a impedire a 28 persone di raggiungere l’Italia. Aldilà della disumanità che dimostriamo nell’affrontare il fenomeno migratorio, mi ha sempre colpito l’insensatezza dello sforzo. Non è un fenomeno che si possa arrestare: provarci produce solo crudeltà, morte e sofferenza. Il “fenomeno”, semmai, va governato. Se guardiamo la demografia dei territori da cui provengono quelle persone, ci rendiamo conto che l’Africa è un continente giovane e pieno e di energia, energia di cui in Europa avremmo un gran bisogno. Penso all’ultima inquadratura del film di Matteo Garrone (Io capitano, ndr): magari quel ragazzo diventasse italiano. Quel che sta succedendo in Europa è mostruoso e profondamente stupido.
Succede da anni: perché questa serie arriva solo ora?
Bises: Il libro di Gatti è uscito 15 anni fa ed è passato inosservato. Ma le storie sono le stesse, le rotte migratorie identiche. Specialmente quella dall’Africa subsahariana. Abbiamo guardato questo “problema” studiandolo solo in termini numerici. Ora il fenomeno si è intensificato, per il cambiamento climatico e le crisi economiche – molte delle quali causate dai nostri stessi comportamenti. Siamo totalmente incapaci di confrontarci con una narrazione che non sia dettata da interessi politici o che non sia cronaca dello sterminio. Ci abbiamo messo cinque anni per fare questo progetto: tendenzialmente ci dicevano tutti che “la gente non lo vuole sapere”.
Hirschbiegel: Aggiungo solo che è sempre stato complicato parlarne perché, di fatto, nessuno è interessato all’Africa. Solo negli ultimi tre anni sembra essere cambiato qualcosa, una curiosità culminata in film e serie. Basti pensare allo splendido lavoro fatto da Agnieszka Holland con Green Border, sul confine bielorusso.
La Rai è mai stata interessata al progetto?
Bises: Mai. Non abbiamo mai avuto nessun contatto: credo sia significativo che i diritti del libro di Gatti non li avesse comprati nemmeno un italiano. L’idea del progetto è arrivata da Sky, da Nils Hartmann (Executive vice president Sky Studios per l’Italia) e dal produttore Sascha Rosemann, che deteneva diritti dei libro: un libro italiano, scritto da un giornalista italiano, su un problema prettamente nostro. Naturalmente ci rendiamo conto che il tema sia super controverso, e che tutti i punti di vista sulla questione siano legittimi. Quando tocchi questa roba, comincia il terremoto.
Vi aspettate una reazione dalla politica?
Bises: Io non mi aspetto niente. Quel che raccontiamo nella serie sono cose successe realmente, sono tentativi di rimpatrio, sono guardie costiere libiche che sparano sulle ong, sono i divieti alle ong di caricare a bordo i naufraghi. Tutto questo racconto farà dire, a chi sostiene la necessità di fermarli ad ogni costo, che “stiamo difendendo i nostri confini”. La speranza è che chi la pensa così possa riavvicinarsi alla percezione della propria disumanità.
Hirschbiegel: Non penso che la gente si renda conto fino in fondo delle ripercussioni di certe decisioni e del perché i rifugiati stiano arrivando. Sono argomenti in mano ai populisti. Da tedesco osservo con crescente preoccupazione quel che accade anche in Germania che, non avendo coste, si è potuta permettere un atteggiamento più “rilassato” sulla questione degli sbarchi, scaricandola su Spagna e Italia. Ma adesso si parla di una stretta sull’accoglienza anche da noi: provo una grande inquietudine.
Al cinema è appena uscito Comandante, il film su Salvatore Todaro (il militare che nel 1941 salvò 19 naufraghi sul suo sommergibile): che fine hanno fatto gli italiani che salvano la gente in mare?
Bises: Non gli è stato più fatto capire che è un dovere morale farlo. Si è persa l’umanità. Ed è accaduto in larga parte per una narrazione interessata. Se trasformi un evento in un pericolo, ottieni rifiuto e cecità. Ma lì dentro, nella possibilità di aiuto, c’è anche un’opportunità grande: quella di riparare ai crimini che abbiamo commesso, alle forti responsabilità che abbiamo nei confronti di quel continente. Novant’anni anni fa l’Italia fascista ha invaso l’Etiopia e commesso atrocità che nessuno ha ancora raccontato, quasi irriferibili. Siamo responsabili. Prenderci cura dei problemi di quel mondo dovrebbe essere per noi un dovere.
Bianchi che raccontano una storia africana: non è appropriazione culturale?
Bises: Certamente gli autori africani diventeranno più forti e troveranno la loro voce, perché hanno fantastiche storie a disposizione e registi che vogliono raccontarle. Io ero consapevole di raccontare una storia “africana”, ma ho cercato di farlo insieme alle persone con cui abbiamo lavorato. Alcune delle nostre comparse hanno compiuto il viaggio che i protagonisti raccontano nella serie. Il ragazzo albino, uno dei protagonisti, è stato una suggestione molto forte: non solo perché, realisticamente, gli albini sono oggetto di una discriminazione molto forte, ma anche perché rappresenta una diversità nella diversità,, che non appartiene a nessun mondo, uno straniero ovunque. Un punto di vista universale, il suo: siamo tutti diversi e tutti uguali.
Una seconda stagione di Unwanted è possibile?
Questa serie è autoconculsiva. Una seconda stagione non è pensabile con questo formato, ma c’è una prateria narrativa se si prova a immaginare cosa accada quando le stesse persone che abbiamo visto nella serie mettono piede a terra. Si potrebbe certamente proseguire. C’è un racconto potenziale che coinvolge gli stessi personaggi nella “terra promessa” dove finalmente riescono ad arrivare.
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