Non è una settimana buona per gli outsider. Se comincia con la morte con Matthew Perry e prosegue con quella di Carlo Ambrosini, bresciano classe 1954, si può ragionevolmente stracciare questa parte del calendario con una certa rabbia. E irriducibile rimpianto per ciò che poteva ancora essere e non sarà mai più.
Carlo Ambrosini è quell’uomo, quell’intellettuale, quell’artista per cui spendere la parola genio non è retorica, ma pura constatazione. E che se ne vada a 69 anni, mentre quest’estate annunciava di avere parecchie pagine di Dylan Dog da scrivere e disegnare – in un’intervista a LegaNerd in occasione del Fantastica di Reggio Calabria, dove era sembrato in gran forma – fa male. Come lettori e amanti di quel tratto, nel disegno come nel racconto, riconoscibilissimo e coraggioso.
Carlo Ambrosini, la carriera
Da dove cominciare? Dal fatto che a fine anni ’70 Carlo Ambrosini era già uno fuori dagli schemi, fin dalle colonne della Dardo, trova modo di farsi notare, non dai grandi numeri, ma dai grandi intenditori. Come Enzo Biagi che lo mette dentro lo staff de La storia d’Italia a Fumetti o Berardi che lo nota e lo inserisce tra i disegnatori di Ken Parker (e che Ambrosini considererà il suo maestro, nella più antica accezione del termine, ovvero del pigmalione che ti porta all’età adulta e ti fa incontrare le tue attitudini) allora il personaggio più rivoluzionario del fumetto popolare, perché d’autore e pop ma anche e soprattutto perché, come Peckinpah con Ford, prese il genere western, che in Italia sembrava poter essere solo Tex Willer (su cui poi lui negli ultimi anni lavorerà meravigliosamente), e ne fece una metafora meravigliosa di quegli anni.
Esordisce con il numero 26, Pellerossa, per poi firmarne un’altra decina, prima di inventarsi Nico Macchia, personaggio medievale che andrà oltre confine e finirà in Francia, dove troverà un successo che confermerà il gusto del popolo transalpino per i nostri autori più coraggiosi.
Affatto strano per un disegnatore e sceneggiatore che ha sempre amato le atmosfere pittoriche – d’altronde Liceo Artistico e Accademia delle Belle Arti di Brera le frequenta con successo proprio perché pensa di dipingere, poi per sbarcare il lunario si dà all’illustrazione -, e che in particolare ha saputo replicare atmosfere dell’arte mitteleuropea con una potenza espressiva ed evocativa che ha poi mostrato, in tutta la sua forza, nel suo capolavoro, Napoleone (doveva essere una miniserie di 8 numeri, è rimasta, con cadenza bimestrale, dieci anni in edicola ed è poi pure tornata nella collana Le storie), dove quelle suggestioni si univano a un mondo parallelo e parapsichico fatto di archetipi mentali che giocavano la loro partita con e oltre Napoleone Di Carlo, albergatore di Ginevra, italiano natìo di Addis Abeba, investigatore suo malgrado. E poi, per un biennio, arrivò Jan Dix, critico d’arte e detective (14 albi).
Difficile dimenticare questi due pezzi di storia del fumetto – e al contempo l’ottima collaborazione in entrambi con Paolo Bacillieri – così come i suoi albi di Dylan Dog, dal primo, Canale 666, a uno tra gli albi più amati dei (finora) 446 usciti in edicola, Il lungo addio, che vede insieme gli Avengers della Bonelli: Marcheselli al soggetto, Sclavi alla sceneggiatura, Ambrosini ai disegni.
Il ricordo dei colleghi
Se bisogna ricordare una sua frase, quella che meglio lo rappresenta è “si scrive anche quando si disegna, si disegna anche quando si scrive”, che ritrae perfettamente quel suo talento multiforme, ricercato e raffinato che riusciva, così brillantemente, a brillare nelle parole come nelle tavole, nel suo caso un tutt’uno difficilmente distinguibile le une dalle altre.
Sergio Bonelli, che ha sempre avuto un’attenzione particolare per i numeri ma sulla sua scrivania aveva spesso albi sperimentali di altre case editrici, proteggeva quel disegnatore e autore che aveva creato una nicchia altra e alternativa rispetto al “solito” pubblico Sergio Bonelli e con il suo fare burbero confessava a chi lo amava la sua ammirazione per Carlo Ambrosini.
Ammirazione di tutti, che stasera invadono i social con il loro dolore. Da Roberto Recchioni, ex curatore di Dylan Dog, che affranto scrive su Instagram “Non dico niente. Mi spiace molto. Ciao, Conte” a chi l’ha sostituito, Barbara Baraldi “Ciao Carlo. Che proprio non ci sono parole”.
Entrambi con sue tavole a commentare la dipartita precoce. Perché quello che sapeva scegliere le parole migliori era Carlo Ambrosini – sempre poche, e inaspettate, sulle pagine dei suoi albi – e ora non lo farà più. O forse sì, ma solo con Lucrezia, Caliendo e Scintillone, beati loro.
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