La chiamavano “la marescialla”, il che la dice lunga sul carattere della signora. Precisa, decisa, persino sfrontata. Elvira Notari era disposta a tutto – o quasi – per soddisfare la sua ambizione: fare cinema. O meglio immaginare il cinema, negli anni in cui la misteriosa “invenzione del secolo” era poco più che un’attrazione strillata per strada dagli imbonitori.
Fotografia ingiallita sui manuali dell’università, occasionalmente rispolverata per convegni e rassegne, la pioniera del cinema muto italiano, prima donna regista del nostro paese, è la protagonista di un romanzo di Emanuele Coen, La figlia del Vesuvio. La donna che ha inventato il cinema (Edizioni Sem, in libreria dal 15 settembre), che pare già un film.
Dalle 173 pagine del romanzo, che segue l’avventura professionale e personale di Notari – dall’apprendistato come modista alla fondazione della Dora Film, sino al tramonto dell’impresa con l’avvento del sonoro – emerge il ritratto brillante e (finalmente) tridimensionale di una donna dentro e fuori dal suo tempo.
Il cinema, “o’mbruoglio int’o lenzuolo”
Nata a Salerno nel 1875, per prima intercettò l’arrivo del cinema a Napoli, dove “o’mbruoglio int’o lenzuolo”, nei primi anni Venti, era diventato il passatempo più desiderato dalla gente, senza distinzioni di classi sociali. Notari scopre il cinema sul telone bianco calato sulla facciata dei Grandi Magazzini Mele e si lascia incantare dal genio visionario di Maurizio Recanati, che reduce da Broadway aveva aperto a Napoli la prima “vera” sala della città, al numero 90 della Galleria Umberto I.
Conosce il marito Nicola, illustratore, al cinematografo. L’amore per il suo compagno, e quello per il cinema, nascono nello stesso istante: “Napoli in quegli anni era in fermento, la borghesia era ricca, aprivano ovunque teatri e grandi magazzini – racconta Coen – La città aveva una sua indomabilità, distante dal conformismo fascista. Le sale cinematografiche traboccavano di spettatori. I film di Elvira, proiettati nella Galleria, erano letteralmente presi d’assalto”.
Diventata regista per gioco, dopo aver aperto col marito un negozio in cui si coloravano a mano le pellicole, Notari nel 1921 gira uno dei suoi più grandi successi, A legge: il film viene proiettato per trenta giorni di fila per tre volte al giorno, dalle 9 alle 20. “E parliamo di un’epoca in cui la morale era molto diversa dalla nostra. Era ritenuto sconveniente, per una donna, andare al cinema da sola o con un’amica”.
Figuriamoci girarlo, un film: e lei ne ha fatti più di 60, oltre a centinaia di documentari e corti (in tutto oggi ne rimangono tre: li conserva la Cineteca Nazionale), grandissimi successi in patria e all’estero. Persino in America, dove le copie dei suoi lavori arrivano di contrabbando, nascoste nelle valigie degli emigranti, perché alla censura fascista quel suo modo di raccontare le relazioni sentimentali, le passioni e soprattutto le donne, libere e libertine (Medea, Rosa la pazza, Il nano rosso), proprio non piace.
Notari si infuria, si rifiuta, scrive lunghissime lettere di protesta contro chi vorrebbe tagliare i suoi film, modificarne la trama, addirittura eliminare le didascalie in dialetto. O almeno Coen la immagina così, perché “della sua vita privata praticamente non c’è traccia. Non concesse mai una sola intervista. O forse non le fu nemmeno chiesta”.
L’incontro: Elvira Notari e Matilde Serao
Bisogna considerare che fare cinema, negli anni Venti, non era quel tipo di professione che ti apre le porte dei salotti buoni. Salotti che Notari, figlia di un venditore di stoffe, ha sognato per tutta la vita. Quando finalmente può incontrare il suo idolo e modello, la giornalista Matilde Serao – altra donna eccezionalmente avanti, prima fondatrice di un giornale – tra le due non scocca la scintilla. Serao non la degna di uno sguardo: potevano diventare amiche geniali. Non è successo.
È una Napoli-Babilonia quella in cui Notari, da colorista diventa produttrice (ma la Dora Film è intestata al marito: alle signore non è permesso) e poi regista e pioniera di un cinema diverso da quello che nasce negli stessi anni a Torino – il kolossal Cabiria, di Luigi Pastrone, è del 1914 – più vicino al reale, a conduzione familiare, precapitalista e povero di mezzi.
Un cinema che trova la sua strada negli Stati Uniti proprio mentre in Italia arrivano i grandi film e le star americane, Chaplin e Griffith, Pickford e Fairbanks, accolte in trionfo da Mussolini (che amava regalare loro i suoi ritratti: ma questa è un’altra storia). La competizione si fa dura, e la storia, quella con la maiuscola, è destinata a prendere presto pieghe tragiche.
Mentre A santanotte e È piccirella di Notari fanno il tutto esaurito a Little Italy, trasformando l’attrice Rosa Angione nella stella degli emigrati italiani, la censura, e la modernità che avanza, cominciano a minare il sogno della pioniera. I suoi film, dicono i censori, offrono un’immagine “dannosa” del paese. Le sue opere vengono boicottate. La critica la boccia.
L’avvento del sonoro
“L’ho immaginata come una donna forte, una specie di generale in servizio permanente, ma vittima delle sue fragilità. E cioè l’invidia per quel mondo di salotti cui non apparteneva, e l’ostinazione. Nel primo decennio del fascismo, o ti adeguavi salendo sul carro dei vincitori, o te ne andavi. Lei rimase a Napoli, ma non accontentò mai nessuno. A un certo punto fece qualche goffo tentativo di compiacere i censori, con film più “puliti” e temi persino religiosi. Ma alla fine degli anni Venti, quando il cinema muto stava per morire, non seppe rinnovarsi. I più furbi, come Gustavo Lombardo, si trasferirono a Roma. Lui fondò la Titanus con 50.000 lire. Lei non si salvò”.
Una storia, si diceva, da film (Lina Wertmuller, del resto, aveva accarezzato l’idea). Prospettiva che si augura anche l’autore: “Sarebbe un modo magnifico per tramandare la memoria di questa grandissima donna, artista e imprenditrice, che abbiamo finito per consegnare alla storiografia senza realmente avere un’idea di chi fosse. Chi vedrei nel ruolo? Lo dico un po’ per gioco, mi piacerebbe che Elvira Notari fosse interpretata da un’attrice, una donna del sud. Mi vengono in mente tre nomi fra tutti: Cristiana Dell’Anna, Alessandra Mastronardi e Francesca Ritrovato”.
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