“Qualcosa deve essere assente o smarrito perché qualunque narrazione si svolga: se tutto rimanesse al suo posto non ci sarebbe alcuna storia da raccontare”. Così scriveva un importante teorico della letteratura, Terry Eagleton, e la cosa vale forse ancora di più per il cinema. Lo conferma un libro uscito da poco, fin dal titolo: Il cinema e l’oggetto perduto (Marsilio, 273 pp., 26 euro). L’autrice, Lucilla Albano, è stata la prima in Italia a studiare il cinema con gli strumenti della psicanalisi, e qui affronta un tema che è centrale in molti modi.
Da Bergman a Hitchock
Si susseguono nel libro analisi di film famosi, antichi e recenti, da Bergman ad Almodovar, da Alain Resnais al Filo nascosto. Fino a Io ti salverò di Hitchcock, denigrato da generazioni di intellettuali per la sua versione rozza del rapporto tra analista e paziente e per l’uso “volgare” dei disegni di Salvador Dalì (ma il film, sostiene Albano, è tutt’altro che una volgarizzazione, e tocca punti decisivi). Al di là dell’elemento dell’oggetto del desiderio, nei film (che può essere un amore impossibile o proprio fisicamente un oggetto del desiderio più simbolico) nasce però il sospetto che qui sia in gioco qualcosa di più profondo.
Che tutto il cinema, insomma, abbia al suo cuore un oggetto perduto. Di più: che esso stesso sia, oggi, un oggetto perduto.
Lo suggerisce l’autrice, quando parla di alcuni leggendari film strappalacrime degli anni ’40: “Il dispositivo del melodramma funziona proprio come quello cinematografico: mette in scena la nostalgia, l’anelito verso qualcosa che non è stato posseduto mai, che è stato perduto da sempre. (…) Siamo profondamente dentro il film (quando ci siamo) e nello stesso tempo stiamo sempre per perderlo, lo abbiamo sempre già perso”.
Un oggetto perduto
Il cinema forse è un oggetto perduto, in tanti sensi: perché moltissimi dei film muti sono oggi scomparsi, distrutti e irripetibili. Perché il supporto su cui era girato era volatile, deperibile, infiammabile. (Ed è dubbio che il digitale, oggi, garantirà una maggior consistenza nel tempo). Perché ciò che è stato filmato, nel momento in cui lo si vede, non è già più lì: è accaduto altrove, e in un altro tempo.
Perché, prima delle videocassette, dei dvd e dello streaming, ogni volta in cui si vedeva un film poteva essere l’ultima. Perché quei corpi sullo schermo, così incombenti e vicini, quel piacere e quel dolore, rimanevano irraggiungibili dallo spettatore. E perché oggi quell’esperienza collettiva sembra consegnata in gran parte al passato (basti pensare a come la rievocano certi film recenti, da Babylon a Empire of Light).
Un territorio fantasmatico
La psicanalisi (Freud, ma anche Jacques Lacan) aiuta Lucilla Albano a muoversi in questo territorio fantasmatico. Cinema e psicanalisi, del resto, sono gemelli: nelle stesse settimane del 1895 in cui i fratelli Lumière girano a Lione i loro primi film, che mostreranno in pubblico alla fine dell’anno a Parigi, Freud ha un sogno complicatissimo, devastante e rivelatore: il cosiddetto “sogno di Irma”, da cui nasce la scintilla dell’intera psicanalisi.
Albano immagina che ogni volta che viene proiettato un film abbia luogo una “tripla scena”.
Da un lato, quella del film proiettato. L’altra, quella delle condizioni oggettive in cui il film viene visto. E poi quella che lei chiama l’altra scena: “qualcosa di inaccessibile, come la scena primaria, come il sogno e il fantasma, poiché il cinema riattiva e fa riaffiorare nel soggetto- spettatore “la propria scena”, quella dell’inconscio, in particolare mettendo in moto i meccanismi dell’identificazione, del voyeurismo e del feticismo, dell’immaginario, della seduzione e della specularità”.
Non stupisce che, al suo apparire, il cinema affascinasse ma facesse anche paura agli spettatori, che vi vedevano un luogo vertiginoso, “il lucernario dell’infinito”.
Lucilla Albano, i fratelli Bertolucci e la psicanalisi
C’è poi un piccolo dettaglio biografico, ma che a libro chiuso diventa importante. Un’altra assenza. Quando l’ho intervistata, Albano ha raccontato di aver conosciuto la psicanalisi negli anni ’70 grazie al suo nuovo compagno, che sarebbe stato il compagno di una vita, Giuseppe Bertolucci, e a suo fratello Bernardo. Sono stati i due fratelli registi a farle conoscere l’analisi, e anche il cinema. Mi sembra che dietro questo libro, taciuto per pudore, ci sia un altro oggetto mancante, anzi un soggetto mancante. Proprio Giuseppe, scomparso 11 anni fa, e che aleggia, per citare i versi di suo padre Attilio, come un’ “assenza, più acuta presenza”.
THR Newsletter
Iscriviti per ricevere via email tutti gli aggiornamenti e le notizie di THR Roma