Che Cormac McCarthy fosse un gigante della letteratura, e uno dei pochi autori contemporanei che reggerà alla prova del tempo, se ne è accorto per primo Harold Bloom, che lo ha inserito nel proprio canone insieme a Philip Roth, Don De Lillo e Thomas Pynchon. Ci è voluta tutta l’ottusità ideologica dell’Accademia svedese per negargli il Nobel, come del resto ha fatto con gli altri tre. La sua scrittura cristallina, lavorata, essenziale, ha rappresentato il contraltare di una costante meditazione sulla presenza del male nell’esistenza e sul tragico enunciato evangelico secondo cui gli uomini preferiscono le tenebre e il principe del mondo è il diavolo.
È stato uno scrittore profondamente, imprescindibilmente spirituale, in alcuni momenti dichiaratamente religioso, e anche questo elemento, insieme a prese di posizioni antitetiche al politicamente corretto, hanno finito per penalizzarlo. Amava profondamente il cinema, McCarthy, e apparteneva a quella ristretta cerchia di scrittori che non ha bisogno di affermare la superiorità della letteratura sulla settima arte, e anzi ne parlava sempre volentieri, scrivendo occasionalmente sceneggiature come The Counselor, adattato sullo schermo, a dire il vero piuttosto malamente, da Ridley Scott.
L’azione dolorosamente interiore
Con l’eccezione di Non è un paese per vecchi, non è stato fortunato con gli adattamenti, per due motivi che si sono sovrapposti: la sua scrittura è in partenza già estremamente cinematografica, e, come è avvenuto anche nel caso di Gabriel Garcia Marquez, ogni adattamento ha finito per tradirne la purezza. C’è poi la questione del contenuto: sotto una superficie spesso spettacolare, i suoi temi hanno un’azione dolorosamente interiore, quasi sempre intraducibile sullo schermo, e a questo va aggiunto la modestia artistica dei registi che hanno tentato di adottarne le opere.
Ciò che rende Non è un paese per vecchi l’unico esempio riuscito, con la parziale eccezione di Cavalli Selvaggi di Billy Bob Thornton, è la decisione da parte di Joel Coen e Ethan Coen di tradire l’essenza del romanzo, minimizzando la riflessione etica e concentrandosi invece sull’azione e sulla personalità di Anton Chigurh (Javier Bardem), che immortala la rappresentazione del mistero del male assoluto. Il primo piano del suo sguardo allucinato quando strangola un vicesceriffo che si è illuso di averlo catturato è nello stesso tempo un momento di grande cinema e la raffigurazione perfetta di quello che ha in mente lo scrittore.
Le parole dello sceriffo
Se parlo tuttavia di riuscito tradimento è perché in questo cambiamento di baricentro viene minimizzato il ruolo dello sceriffo Ed Tom Bell (Tommy Lee Jones), che nel romanzo regala perle come questa: “Quando uscivi dalla porta del retro di casa, da un lato trovavi un abbeveratoio di pietra in mezzo a quelle erbacce. C’era un tubo zincato che scendeva dal tetto e l’abbeveratoio era quasi sempre pieno, e mi ricordo che una volta mi fermai lì, mi accovacciai, lo guardai e mi misi a pensare. Non so da quanto tempo stava lì. Cento anni. Duecento. Sulla pietra si vedevano le tracce dello scalpello. Era scavato nella pietra dura, lungo quasi due metri, largo suppergiù mezzo e profondo altrettanto. Scavato nella pietra a colpi di scalpello. E mi misi a pensare all’uomo che l’aveva fabbricato. Quel paese non aveva avuto periodi di pace particolarmente lunghi, a quanto ne sapevo.
Dopo di allora ho letto un po’ di libri di storia e mi sa che di periodi di pace non ne ha avuto proprio nessuno. Ma quell’uomo si è messo lì con una mazza ed uno scalpello e aveva scavato un abbeveratoio di pietra, che sarebbe potuto durare diecimila anni. E perché? in che cosa credeva questo tizio? Di certo non credeva che non sarebbe cambiato nulla. Uno potrebbe pensare anche a questo. Ma, secondo me, non poteva essere così ingenuo.
Ci ho riflettuto tanto. Ci riflettei anche dopo essermene andato da lì quando la casa era ridotta a un mucchio di macerie. E ve lo dico, secondo me quell’abbeveratoio è ancora lì. Ci voleva ben altro per spostarlo, ve lo assicuro. E allora penso a quel tizio seduto lì con la mazza e lo scalpello, magari un paio d’ore dopo cena, non lo so. E devo dire che l’unica cosa che mi viene da pensare è che quello aveva una specie di promessa dentro il cuore. E io non ho certo intenzione di mettermi a scavare un abbeveratoio di pietra. Ma mi piacerebbe essere capace di fare quel tipo di promessa. È la cosa che mi piacerebbe fare più di tutte”.
La strage di El Paso
Nulla di tutto ciò è presente nel film, che tuttavia ha momenti di assoluto magistero registico, come la scena in cui Llewelyn Moss (Josh Brody) viene inseguito da un gruppo di narcotrafficanti e poi da un cane feroce, o quella in cui viene consumata una strage di El Paso in cui muore una prostituta che si è appena offerta a Llwelelyn: i Coen non le dedicano neanche un primo piano ma le poche parole che dice mentre prende il sole a bordo di una piscina la rendono indimenticabile. Purtroppo in nessuno degli altri film si riesce a trovare nulla di simile, nonostante la matrice letteraria altissima, come nel caso di Figlio di Dio, La Strada e Sunset Limited.
Ora è in preparazione un adattamento dal suo capolavoro Meridiano di Sangue, definito dal New York Times “il libro più sanguinoso dai tempi della Bibbia:” lo sta preparando John Hillcoat, regista della Strada, e c’è da sperare che questa volta riesca a trasformare in un linguaggio cinematograficamente compiuto il rapporto tra un giovane che «cova dentro un gusto per la violenza insensata» e il giudice Holden, «enorme, calvo come un uovo, senza peli né sopracciglia», il quale dice al giovane: «Bevi. Il mondo va avanti. Di notte abbiamo il ballo e questa notte non fa eccezione. La via retta e la via tortuosa sono una cosa sola, e ora che sei qui cosa contano gli anni trascorsi dall’ultima volta che ci siamo incontrati?»
Questa concezione tragica dell’esistenza, dove tuttavia un barlume di luce offre sempre la possibilità della redenzione e conclude ogni vicenda, anche la più cupa e disperata, con un momento di speranza, è imprescindibilmente legato a una profonda libertà intellettuale che ha consentito a McCarthy di mantenere un autentico distacco rispetto a creazioni così dolenti. Nei suoi libri la violenza non è mai spettacolarizzata perché è catartica, e il senso del peccato è più importante di quello del reato.
La visita di Cormac McCarthy
Saul Bellow, che ne era un incondizionato ammiratore, ha dichiarato che “usa il linguaggio in maniera straordinaria, con frasi che generano vita quando parlano di morte”, intuendo che quella lingua cristallina non rappresentava mai semplicemente il frutto della semplice ricerca della bellezza. C’è da ricordare infine un ennesimo elemento che ha obnubilato la vista di chi non sa superare il politicamente corretto: parallelamente a questa concezione tragica dell’esistenza McCarthy ha sempre rivendicato il piacere del gioco, e a questo riguardo vorrei concludere con un episodio che mi è stato raccontato dai fratelli Coen.
A metà delle riprese di Non è un paese per vecchi, Ethan fu raggiunto da una telefonata allarmata da parte della produzione e andò ad avvertire subito Joel: stavano preparando una scena complicata e l’ultima cosa di cui avevano bisogno era un imprevisto. Cormac McCarthy aveva deciso di fare una visita a sorpresa e Joel disse “proprio oggi?”: quel giorno era prevista una scena inesistente nel romanzo e un suo parere negativo avrebbe potuto compromettere la sorte del film.
Il nervosismo sul set era palpabile ma McCarthy disse “questo rende la visita ancora più interessante”, e dopo aver ammirato la scena inventata passò il resto della giornata a giocare con le armi caricate a salve. In quella occasione Joel Coen gli chiese se il cognome Chigurh fosse stato scelto per non legarlo a un’etnia specifica: si è sentito rispondere che il vero motivo è che il male non appartiene a nessuno perché è di tutti.
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