Lino Guanciale debutterà domani al Teatro Grassi di Milano con Ho paura torero, lo struggente e visionario capolavoro di Pedro Lemebel, icona della letteratura queer e pop camp sudamericana.
Una storia d’amore spietatamente sovversiva e ambientata nella primavera cilena del 1986 sotto la dittatura di Pinochet. “Ne sono rimasto folgorato! È stato un regalo di mia moglie che sapendo del mio amore per la letteratura latinoamericana mi ha fatto scoprire l’unico romanzo di questo grande artista che ho proposto subito a Claudio Longhi, direttore del teatro e regista dello spettacolo.”
Reduce dal successo della serie Un’estate fa, ne ha appena finito di girarne un’altra, Il Conte di Montecristo, per la regia del premio Oscar Bille August che arriverà sulla Rai in otto puntate. Prodotta da Palomar, in collaborazione con Demd Productions e Rai Fiction, France Televisions, Mediawan Rights ed Entourage. Il gruppo di partner europei ha interamente finanziato la serie – una produzione indipendente che rientra tra i nuovi progetti dell’Alleanza Europea – le cui riprese hanno avuto luogo in Francia, Italia e Malta.
A febbraio, poi, riprenderà a Verona lo spettacolo L’uomo più crudele del mondo in coppia con Francesco Montanari. In primavera inizieranno le riprese della terza stagione de Il commissario Ricciardi. A maggio invece sarà in scena al teatro Bellini di Napoli con Napoleone e in estate infine lo attende il cinema per alcuni progetti ancora top secret.
Un periodo straordinariamente impegnativo per l’attore che per amore si è da poco trasferito a Milano.
Non teme una sovraesposizione?
Bisogna stare effettivamente attenti alla sovraesposizione. Ad oggi di questo ne beneficia la vita privata senz’altro perché da due anni, da quando mi sono sposato e poi da quando è nato mio figlio evidentemente le regole del gioco sono sensibilmente mutate per me, nel senso che cerco di radicare il più possibile il lavoro in un raggio non troppo lontano dal centro della mia vita familiare che oggi è Milano.
Sono così contento del rapporto che si è instaurato con il Piccolo di Milano, per cui faccio questo nuovo spettacolo, Ho paura torero, in scena dall’11 gennaio. Lavorare a casa ovviamente mi consente di avere degli spazi importanti di tutela della mia vita privata.
Niente più estenuanti tournèe?
Purtroppo è il destino degli attori, il modello storico della vecchia tournée la mia generazione ha fatto in tempo ancora a conoscerla e cavalcarla, quando ho cominciato a lavorare vent’anni fa si facevano ancora tournée di tre o quattro mesi, ma quell’orizzonte lì ormai è quasi estinto o comunque molto raro.
Oggi quasi tutti gli spettacoli che vanno in giro, con alcune eccezioni, ovviamente vivono di spot, di momenti di bolle di disponibilità dislocate nell’arco di una stagione.
Facendo così uno riesce a ritagliarsi dei giusti spazi per riuscire a coltivare quella che è poi è la sua dimensione. Lo scopri andando avanti soprattuto con gli anni, con una certa anzianità di servizio. Il carburante vero per quello che fai, cioè la vita che vivi, la tua vita privata, che scopri essere quella che ti arricchisce di più anche per fare il lavoro che facciamo noi.
Non porterà quindi in giro Ho paura torero?
È uno spettacolo che per ora nasce per fare una lunga programmazione al Piccolo di Milano, staremo un mese intero. È una cosa bella tenere uno spettacolo tanto tempo, una cosa a cui noi abbiamo ricominciato ad abituarci nel nostro paese da poco tempo, consente di radicare un rapporto con il pubblico di una città in maniera molto più forte. Permette anche di organizzarsi a chi non è di quella città. Secondo me rende sensibilmente attrattivo anche il teatro che lo sta mettendo in scena.
Non che il Piccolo di Milano ne abbia bisogno, perché è un teatro con una tale storia, ma è un discorso intelligente, anche in una metropoli come quella lombarda, lavorare con un calendario di questo taglio, perchè è una produzione piccola ma che resta in casa per un mese.
Poi naturalmente vedremo che cosa succederà e se ci saranno le condizioni per andare in tournée. Per ora quello che importa è di portarlo in scena nella maniera più convincente possibile e arrivare a più persone possibili che approfitteranno di questo mese per venirci a vedere in quella che – secondo me – è anche simbolicamente la sede ideale sotto tanti aspetti.
Come mai ha deciso di puntare proprio su questo spettacolo?
L’ho portato all’attenzione del direttore del Piccolo Claudio Longhi, che farà anche la regia e con il quale ho un sodalizio artistico ventennale, abbiamo fatto tante cose insieme. Ma in realtà il libro di Pedro Lemebel mi è stato portato e consigliato da mia moglie, che a sua volta l’ha avuto come consiglio per me da un libraio di fiducia.
I librai sono l’interlocutore più importante insieme all’analista e al confessore.
Perchè?
Sono pochi quelli di cui ti puoi fidare. Il bravo libraio è uno di questi, più ancora del terapeuta.
Tornando a Lemebel, perchè le è piaciuto?
Io ho una grande passione, soprattutto in questi ultimi anni, per la letteratura latinoamericana. Mia moglie cercava per me un libro che potesse interessarmi, si era concentrata giustamente su Roberto Bolaño, che è un autore che adoro.
Il bravo libraio le ha consigliato di propormi questo Pedro Lembel, scrittore e performer cileno, scomparso pochi anni fa. È l’unico romanzo che ha scritto e in Italia è conosciuto da una nicchia di entusiasti appassionati, cioè chi lo conosce non può che amarlo.
Quando l’ho letto ne sono rimasto folgorato. E così Claudio Longhi: tra i tanti progetti che avevamo insieme ci è sembrato sin troppo chiaro che dovevamo concentrarci su questo.
L’anno scorso ricorreva anche il cinquantenario del colpo di Stato di Pinochet.
Pedro Lemebel è stato un grande oppositore di Pinochet e lo è stato dall’interno. Ha scelto di restare in Cile, non è andato via e ha poi subito sulla propria pelle lo scotto sia delle sue convinzioni politiche sia dell’incompatibilità con i valori del regime, del suo orientamento sessuale e delle sue scelte di orgoglio legittimo, giusto, sacrosanto.
Non era facile in quel periodo essere un travestito in Cile.
Era uno che amava molto giocare sulle contraddizioni della società e questo l’ha portato a incorrere in molteplici guai, come si può facilmente intuire, a essere perseguitato da parte del regime di Pinochet. Questo però non l’ha mai scoraggiato a smettere la sua attività di performer, attività coraggiosissima vista la situazione.
Nei suoi scritti lo dice, facevano delle piccole performance fulmine in un luogo e come arrivava la polizia scappavano. È stata la voce di tante radio di opposizione, per lo più clandestine, al regime stesso. Di romanzi ne ha scritto uno, però devo dire che quell’uno a me è bastato molto per innamorarmi della sua scrittura.
È anche una storia d’amore.
È una storia d’amore molto bella quella tra un travestito e un giovane ragazzo che agisce tra le fila di un piccolo esercito rivoluzionario e che sta preparando un attentato contro Pinochet. Attentato che effettivamente c’è stato nel 1986, l’anno in cui per l’appunto è ambientato il libro.
Un rapporto tra due persone, due cuori così diversi tra cui nasce un’intesa, un amore, uno scambio che porta l’uno a fare dei passi di educazione sentimentale enormi per la propria vita, parlo del giovane rivoluzionario, e l’altro, ovvero il travestito, a conquistare una dimensione di politico da integrare a quella esistenziale erotica di cui era già testimone.
Come si è preparato ad interpretare la Fata del romanzo, ha dato una sbirciatina al guardaroba di sua moglie?
Sarebbe stata un’ottima strategia, ma la rabbia per la differenza di taglia avrebbe prevalso (ride). Mi sono documentato molto su un mondo che mi sono accorto di conoscere, come forse quasi tutti, fin troppo poco.
Ho scoperto per esempio l’esistenza di un libro fotografico che per me è una specie di Bibbia in questo momento, I travestiti di Lisetta Carmi. Un libro fotografico che in realtà ora è tra i più celebri al mondo perché questa artista, questa fotografa coraggiosissima, ha vissuto negli anni ’60 e ’70 a stretto contatto con la comunità dei travestiti della città vecchia a Genova e ha guadagnato a tal punto la loro fiducia da poterli ritrarre in vari momenti della loro giornata.
Ne è nato un libro fotografico magico, in cui tu hai la testimonianza di tutta l’allegria, la gioia, il dolore, la fragilità, le ferite, la violenza e l’esplosione di vitalità, il coraggio di queste persone. Nessuno di noi conosce abbastanza questo mondo, specie quando qualcuno prende in giro o tenta di dare un nome all’orientamento sessuale etichettandolo.
Per alcuni il proliferare di nuove lettere in questo acronimo LGBTQI+, è una presa in giro, io invece credo che sia la testimonianza di quanto finalmente un giusto interesse si sia acceso, si stia accendendo e si debba espandere ulteriormente nei vari strati della nostra società per quello che è un tema fondamentale, cioè il desiderio. Che cos’è nel corpo di ognuno e ognuno quanto diritto ha di poter esprimere il rapporto di consonanza o di dissonanza con la propria fisicità.
Grazie allo studio con questo spettacolo ho scoperto quanto fossi ignorante e quanto fossi, pur pensando di essere un gran progressista molto aperto di vedute, quanto invece fossi rimasto indietro.
Le nuove generazioni non amano le etichette.
Penso agli adolescenti di oggi e vedo quanto sono molto più avanti di noi sotto tanti aspetti. Poco tempo fa durante il tour pugliese abbiamo incontrato anche tante ragazze e tanti ragazzi e uno di loro, e dico uno perché lui desidera così, è venuto a chiedere una foto, un ragazzo allegrissimo, bellissimo da vedere, ma non da vedere in relazione ai suoi compagni, in relazione all’entusiasmo che aveva per lo spettacolo, che io e Francesco Montanari avevamo appena fatto.
Questo ragazzo ci chiede una foto, una firma e poi veniamo a sapere che sta facendo il suo percorso per essere quello che desidera. E io guardandolo, capisco improvvisamente tante cose. Sai quando da un incontro capisci che tutti quelli che rubrichi come grandi problemi, in realtà non sono problemi per le ragioni che pensi tu? Tu ti perdi in inezie e poi vedi quanta felicità può generare in qualcuno un percorso di liberazione, per quanto difficile sia, penso per esempio per un genitore che gli sta accanto.
Quante asperità trovi nell’essere vicino a un figlio o una figlia che vuole fare un percorso di questo tipo? Però per quanto difficile sia la priorità deve rimanere rispettare la felicità, il diritto alla felicità e alla libertà di chi lo intraprende. E ho pensato a quanto il suo cuore felice in quel momento aveva da insegnare a me.
I giovani per fortuna sono molto meno frenati da vincoli e tradizioni.
Secondo me questo è un enorme valore. Ringrazio da questo punto di vista il lavoro che faccio, perché questo progetto così impegnativo già mi sta dando moltissimo. Noi, delle volte si fa questo lavoro per avere la scusa di poter studiare, studiare gli altri, studiare noi stessi, fare un buon viaggio dentro di noi e restituirlo a chi ci guarda. E in questo viaggio scoprire cose, conoscersi meglio.
Da un punto di vista cinematografico ha qualcosa in ballo?
Ci sono un paio di progetti che dovrebbero concretizzarsi. Non ci sono ancora le firme e per scaramanzia preferisco non parlarne. Ho appena preso parte a un altro lavoro per la RAI, un lavoro internazionale, la serie il Conte di Montecristo.
Che ruolo avrà?
Su questo purtroppo c’è una clausola di riservatezza, per cui non si può dire nulla. Quello che le posso dire è che ci sarà Sam Claflin, Jeremy Irons, Ana Girardot, e un mix di attori inglesi, francesi, italiani. Molto, molto bello.
E il Commissario Ricciardi che fine farà?
Dovremmo riprendere a girare in primavera.
Riprenderà anche lo spettacolo con Montanari?
Abbiamo finito il 2023 in tour in Puglia con L’uomo più crudele del mondo. Siamo stati a Bari, Brindisi, Taranto e Barletta. Tra febbraio e marzo saremo a Verona e in aprile saremo al Franco Parenti di Milano.
Uno spettacolo che se io e Francesco Montanari avessimo avuto piena disponibilità di tempo probabilmente sarebbe già arrivato a 300 date vista la richiesta che c’è stata e che ancora c’è. Stiamo cercando di dargli una vita diluita ma lunga.
Perché piace?
Perché intanto c’è dietro una scrittura molto forte, al di là del potere attrattivo del nome dei due protagonisti, che possono ovviamente incuriosire il pubblico che ci è molto affezionato. Chi viene a vederci assiste a un lavoro di teatro puro, perché Davide Sacco è un autore e un regista di grande raffinatezza teatrale.
È capace sia di reinventare strutture drammaturgiche classiche, come in questo caso, che di mettersi in linea con una certa strada europea dell’anti-struttura. Come già fatto in un altro lavoro fatto insieme, Napoleone, che a maggio sarà in scena al Teatro Bellini a Napoli.
Si parte sempre da lì, da una bellissima scrittura, da una regia molto forte, che si basa fondamentalmente sul rapporto e sulla gestione della continua tensione fra questi due personaggi, che poi io e Francesco mettiamo in scena buttandoci tutto quello che abbiamo. È un lavoro estremamente violento, nel senso che il tema è estremo in qualche modo, ma è anche violento il dispendio di energie che richiede per essere fatto in maniera credibile.
Questo lo rende da attore anche molto godibile, poi l’affinità e la complicità fra me e Francesco è totale, quindi è paradossale da dire, ma ci divertiamo moltissimo a lavorare insieme. Anche questo è un motivo di attrattiva per il pubblico, cioè sentire questo fortissimo feeling che c’è, questa fortissima intesa fra noi.
È un cocktail ben bilanciato di tanti elementi giusti. Io sono felicissimo perché sulla giovane drammaturgia, sui nuovi autori, ho da tanto un’attenzione particolare e che sia così di successo uno spettacolo scritto e diretto da un trentenne, insomma, mi dà molta speranza.
Alla fine però il teatro continua a vivere di abbonamenti e delle pièce teatrali dei soliti autori.
Visto che viene così tanta gente a vederci ed esce anche contenta, in realtà in Italia abbiamo una scena teatrale classica ma ne abbiamo anche una drammaturgica e moderna. Parlo di giovani autori e autrici, una scena vivissima. Ne ho avuto la riprova anche quest’anno.
Essendo stato in giuria del glorioso premio Riccione, che è appunto il premio più ambito, diciamo così, per la scrittura per il teatro del nostro paese, ho potuto constatare che in Italia si scrive tanto e si scrive bene per il teatro e ci sono tante autrici e tanti autori davvero molto interessanti.
Quanti di questi avranno la possibilità di vedere realizzato un proprio spettacolo?
Il punto è proprio questo! Quanti di loro hanno la chance di arrivare alla prova produttiva del palcoscenico e quindi di incontrare il pubblico? La nostra è ormai da decenni una scena teatrale vivissima in cui ci sono tantissimi gruppi che operano le più disparate ricerche, sia testuali sia di drammaturgia non convenzionale basata sulla multimedialità, sul corpo ma non adeguatamente sostenuta da un sistema che avrebbe bisogno di regole nuove.
Questo lo sa benissimo soprattutto chi dirige, magari anche bene, i teatri ma si trova a muoversi con regole e codici troppo fuori dal tempo per riuscire a dare il giusto impulso a un materiale umano invece che c’è ed è preziosissimo. Riccione questo lo ha dimostrato.
C’è gente che vuole fare questo lavoro ma le porte d’accesso sono sempre più piccole.
Cosa si potrebbe fare per agevolare questi nuovi ingressi?
Credo che una ricetta univoca non sia possibile trovarla. Di sicuro da un lato c’è un sistema che soffre da troppi anni di una mancanza di codificazione nuova. Per fare un esempio, un codice dello spettacolo esiste, ma ne mancano i decreti attuativi da quasi un decennio.
Questa è evidentemente una stortura che poi alla lunga rende tutto sempre più difficile perché quelle stesse regole che hai immaginato anche con fatica anni prima, nel momento in cui poi finisci per attuarle scopri che sono addirittura fuori corso e ti trovi sempre a rincorrere le cose.
Come se ne esce?
Purtroppo il nostro comparto sta in questa situazione da tanto, troppo tempo e la sensazione è che si stia perdendo l’ennesima occasione, e qui le rispondo alla sua precedente domanda.
Bisogna darsi gli strumenti per creare un circolo più virtuoso possibile di relazioni fra teatri, grandi, medi o anche piccoli che però attuino politiche intelligenti, con quelle attrici, quegli attori, quei registi che possono costituire un richiamo per il pubblico, vuoi per la storia che hanno in termini di visibilità, vuoi per il credito artistico accumulato nel corso di carriere importanti.
Usare la loro popolarità per lanciare i nuovi talenti?
A loro in primis bisognerebbe consegnare nelle mani i frutti dei nuovi autori e delle nuove autrici, un pò come succede in altri paesi, penso a la Comédie Française che è un’istituzione tradizionalista, estremamente conservatrice sotto tanti aspetti, ma mantiene uno spazio proprio per la scoperta di nuovi autori, e non soltanto autori locali, francesi o francofoni, ma addirittura europei, mondiali.
Da noi non si riesce a sistematizzare questo tipo di discorso, perché si lascia troppo nelle mani di chi dirige i teatri e di conseguenza alle sue connessioni con questo o quel parterre di attori o attrici bravi, registi in gamba, interessati a fare questo tipo di lavoro.
Se però rimane tutto quanto nell’ambito della buona volontà e basta, delle buone intenzioni, è chiaro che il discorso si indebolisce. Se invece esistessero delle regole per cui fosse interesse dei teatri stessi istituire un certo tipo di connessioni questo potrebbe cambiare molto le cose.
Serve un intervento dello Stato?
Quello che dico, fondamentalmente, è che da un lato serve un intervento da parte dello Stato, dall’altro questo intervento arriverebbe in una fase in qualche modo ascendente di mercato, perché dopo il Covid la gente ha molta voglia di andare al teatro, ce n’è di più rispetto a prima.
È un trend che stiamo osservando, che per fortuna non sta diminuendo, è paradossale dirlo, ma il desiderio di contatto fisico che la pandemia ha provocato al teatro sta facendo bene.
Se si è anche capaci di non tradire questo desiderio e questa fiducia, che sta dando un nuovo impulso alla relazione col pubblico, sarebbe il momento opportuno per fare quegli interventi giusti che consentano ad artisti e operatori, dirigenti, manager del settore, di riconoscere un interesse comune nel portare al pubblico le novità che ci sono e che bisogna soltanto scoprire.
Naturalmente per farlo serve metterci delle risorse per gli autori e per le autrici, di riservare delle quote di loro presenza nei cartelloni e per far questo bisogna ovviamente dare i mezzi ai teatri per sostenere queste iniziative.
Per lei questo appena concluso è stato un anno professionalmente straordinario. La sua ricetta?
Intanto cerco di stare solo su progetti che mi interessano davvero, come per esempio quest’anno c’è stata la messa in onda di Un’estate fa diretta da Davide Marengo e di Noi siamo leggenda. Poi il pubblico mi rivedrà in televisione tra un pò nella terza stagione de Il commissario Ricciardi che cominceremo a lavorare in primavera.
I lavori a cui è maggiormente legato quali sono?
Le faccio un brevissimo elenco di lavori a cui sono, per tanti motivi legato.
Per il cinema c’è Prima Linea di Renato De Maria, che è stata una delle prime cose che ho fatto, per il rapporto che c’era con Renato e anche con Riccardo Scamarcio, con cui lavorai tanto per quel film e per quello che ha significato nel mio percorso, quella è una delle cose più belle.
Il gioiellino di Andrea Molaioli sul crac Parmalat, che continuo a credere sia uno dei pochi film politici che ha avuto il coraggio di dire le cose come realmente stanno.
Poi senz’altro il commisario Cagliostro de La Porta Rossa e Il commissario Ricciardi, ruoli che hanno cambiato molto il mio percorso.
Chiudo dicendo che sono particolarmente felice anche di Un’estate fa, non perché l’ultimo, e quindi va citato, per il lavoro nel suo complesso che era una scommessa, perché mettere insieme generi diversi non è mai facile, la scommessa anche di andare incontro ad un target di pubblico diverso non era detto che andasse in porto, invece non soltanto i numeri ci dicono che è andata molto bene, ma sono proprio contento della serie, perchè è bella, è bella nel suo complesso.
Pietro, suo figlio, quando crescerà per quale suo lavoro pensa potrà prenderla in giro?
Fino a prima di Ho paura torero le avrei risposto delle foto in guepiere di uno spettacolo meraviglioso che feci anni fa, La resistibile ascesa di Arturo Ui di Bertolt Brecht in cui tipo Lili Marlène cantavo in calze a rete, appeso a un trapezio a una decina di metri di altezza.
Ho sempre pensato che se avessi avuto un figlio mi avrebbe preso in giro per queste foto. Oggi invece spero che quando Pietro crescerà avrà magari superato qualsiasi dogma e quando vedrà le foto di Ho paura torero, mi auguro che mi dica: quanto eri bella papà!
O magari le dirà: quanto eri avanti papà! Probabilmente è più facile che la criticherà per Il commissario Ricciardi.
Senz’altro! (Ride!) Però se mi dirà quanto eri bella papà in Ho paura torero, vuol dire che avremo fatto proprio un bel lavoro. E che tutto sommato, da padre, potrò dire di aver fatto un buon lavoro con Pietro.
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