“Ho debuttato in teatro a 70 anni. A 120 debutterò nella coreografia: ho visto un posto bellissimo qui, le Fonderie Limone a Moncalieri. Tra cinquant’anni ci farò il mio primo spettacolo di danzatori”. Rilassato e scherzoso, Moretti commentava così il giorno dopo, con gli studenti dell’Università di Torino, il proprio esordio come regista teatrale: Diari d’amore, due brevi commedie di Natalia Ginzburg. L’incontro con gli studenti doveva durare solo la mattina, ma il regista ha accettato di proseguire fino al pomeriggio. In totale quattro ore di risposte agli studenti, una domanda per ogni lettera dell’ “alfabeto morettiano”, dalla A di Apicella alla Z di Zoccoli olandesi.
Una questione d’umiltà
Tutto sommato, ascoltando il regista c’era un’atmosfera comune con lo spettacolo appena visto. Le due cose comunicano una sorta di disponibilità, di umiltà. Davanti al testo di Ginzburg, fedelmente seguito nella messa in scena, come mettendosi al servizio delle parole insieme agli attori (Binasco, Deflorian, Pozzoli, Giuliani: Moretti non recita). E davanti ai 200 ragazzi, in una situazione in cui il regista era tecnicamente in cattedra, ma il suo atteggiamento era quello di chi spiega con pazienza, senza alterigia.
Diari d’amore, lo spettacolo visto la sera prima, è tutto a togliere e molto concentrato sugli attori, come le ultime cose cinematografiche di Moretti, in cui il lavoro sugli interpreti è sempre più paziente- a tratti crudele, a tratti in ascolto. Una coppia a letto, all’alba, le loro chiacchiere che poco a poco si dirigono verso un piccolo segreto, drammatico o forse solo triste (Dialogo); un confronto tra una moglie e un’amante, con intorno una serva e una sorella, mentre l’uomo intorno a cui tutto ruota tarda ad arrivare (Fragola e panna).
Moretti (e Ginzberg) in controluce
Questo lo schema, semplicissimo, dei testi di Ginzburg, commedie tra borghesia piccola e medio-alta, più o meno intellettuale, fulminei e dai finali tronchi. Moretti le dirige trovando forse in controluce una certa cupezza e crudeltà dei suoi film, ma soprattutto come commedie leggere, da teatro di boulevard. Come scrive Domenico Scarpa, curatore delle opere della Ginzburg per Einaudi, nel programma di sala, c’è tra i due autori un punto in comune stilistico, in realtà semplicissimo, ed è stato spesso espresso sotto forma di critica: “Entrambi sono stati accusati di ignorare la grammatica elementare dell’arte che praticano: della parola scritta per la Ginzburg, dell’immagine in movimento per Moretti. Se fosse vero, non si capisce perché la traccia che lasciano nel linguaggio italiano sia così profonda”.
Territori inconsueti
Uscendo dall’incontro, veniva in mente che questa semplicità ha preso proprio una piega più pedagogica che polemica. Era come se a Torino Moretti avesse in mente due semplici idee, che forse sono la stessa.
Primo: far conoscere delle cose: porgere al pubblico due testi bellissimi e poco noti, messi in scena con rispetto, e spiegare ai ragazzi delle cose che gli premono. Non solo sui suoi film, ma su quel che c’era intorno, non dando nulla per scontato (dalla galassia extraparlamentare degli anni ’70 a Giochi senza frontiere).
Secondo: avventurarsi in territori inconsueti, con curiosità. Provare a dirigere uno spettacolo teatrale a settant’anni (in attesa delle coreografie) e dialogare con dei ventenni di oggi, forse anche per capire come pensano e come parlano. E in quest’ultimo caso, al di là delle cose dette, era proprio l’atmosfera, l’atteggiamento del regista a colpire. Sarebbe stato un bravo professore, viene da dire ascoltandolo: forse più simile ai propri genitori che al Michele Apicella di Bianca.
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