Buongiorno, Marco: la storia d’amore e odio tra Bellocchio e Venezia. Ora sono buoni amici

Il regista di Bobbio con la solita generosità ha regalato una testimonianza al primo numero cartaceo di The Hollywood Reporter Roma, legata alle sue partecipazioni alla Mostra del Cinema. “L’abbraccio con Bernardo Bertolucci, nel 2011, il ricordo più bello. Lì io e il festival ci siamo un po’ riconciliati”. L'intervista

“La mia con Venezia è una storia lunga. E comincia con un rifiuto”. Parola di Marco Bellocchio. Venezia sa sempre come sorprenderti, anche con i suoi no: nel 1986 Velluto Blu di David Lynch fu rimbalzato dalla selezione di un pudico Gian Luigi Rondi per i nudi troppo audaci di Isabella Rossellini. Forse ancora scottato dall’aver selezionato I diavoli di Ken Russel 15 anni prima, con tanto di violente richieste di licenziamento per i suoi contenuti scandalosi e anticlericali.

Marco Bellocchio: “Tutto iniziò con I pugni in tasca

Mai sapremo se I pugni in tasca, con la sua vibrante e profetica voglia di ribellione, con il suo urlo silenzioso – la scena della lettura del giornale in cui Lou Castel simula un grido è Psycho che incontra Bergman – abbia sconvolto con la sua feroce e lucida irriverenza l’allora direttore Luigi Chiarini. “Sarebbe meglio dire che ci ignorò, non fu un rifiuto espresso, allora andammo a Locarno. Fu la nostra fortuna, arrivarono la Vela d’Argento (solo in seguito divenne Pardo) e molto clamore, così ci richiamarono anche dalla Mostra. Iniziò tutto con un no, un ripensamento, una proiezione al Lido fuori dal palazzo del cinema, in una sala che non esiste più e le solite polemiche da cinema italiano, con critici e pubblico che si chiedono perché non sia stato messo in concorso”.

È il prologo perfetto di un rapporto appassionato e conflittuale, Marco Bellocchio e la Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia si sono amati, hanno litigato, si sono riconciliati. Il Festival ha sbagliato tanto con il maestro, ma quest’ultimo non ha smesso di tornare al Lido. Ma anche di lasciarlo, o sfidarlo. “A Venezia in quegli anni c’era meno democrazia, Chiarini era una sorta di padre padrone. Il mio esordio aveva delle affinità nell’argomento con Le vaghe stelle dell’Orsa di Luchino Visconti. E tutti sapevano che dopo anni di mancate vittorie, il direttore voleva dargli il Leone d’Oro. E così fu, con un’opera minore di un maestro che ha fatto almeno quattro o cinque capolavori. Allora si ragionava così, sono convinto che fece lo stesso due anni dopo accogliendomi con La Cina è vicina, che ai suoi occhi era un risarcimento del rifiuto precedente. Infatti lo invitò in concorso ed ebbe il premio speciale della giuria. Vinse Buñuel, ma ci fu questo strano e bizzarro accostamento in cui Godard ed io prendemmo entrambi lo stesso premio. La Chinoise trattava il maoismo con profonda serietà ma senza che il regista francese avesse rinunciato all’originalità del suo stile, io mi ero concentrato più sull’aspetto farsesco, provinciale e ridicolo di quel movimento politico”.

L’antifestival

Scoppia il ’68, che nell’Italia cinematografica e non solo in fondo era stato anticipato proprio dal suo I pugni in tasca, e ne viene travolta anche la Mostra, che si trova a fronteggiare l’antifestival a Venezia città. Una rassegna in e di lotta, contro i premi. “E infatti alla Mostra quell’anno tutte le opere selezionate ricevettero un premio”. Parliamo del 1971. “Presentammo all’antifestival Nel nome del padre, trafugando la copia a Cinecittà, con il produttore, Cristaldi, che ci denunciò per furto! Non male come terza scena, no?”. In questo racconto sembra voler dimenticare la quarta, il 1981 in cui porta il tragico e lacerante Gli occhi, la bocca, con il suicidio del suo gemello messo in scena in un film di finzione, Lou Castel a incarnare entrambi. Con sua mamma ancora in vita, il dolore ancora troppo vivo. Arriveranno poi Sangue del mio Sangue e Marx può aspettare a ridisegnare quel momento e allora lo seguiamo in questa amnesia. “Vado a Cannes in molte occasioni e finisco per tornare alla Mostra nel nuovo millennio”.

Buongiorno, notte: un altro no, più cocente e inaspettato. “Era il 2003. E rimasi molto colpito da quanto gli ultimi fuochi delle battaglie ideologiche si dimostrassero ancora vivi di fronte al mio film, chi lo vide o lo accusò di falsificare la storia, chi lo amò molto. Un pregiudizio ideologico che sembrava coinvolgere tutti tranne me, che dedicai il film a mio padre e trattai la figura di Moro con benevolenza. A ripensarci dopo 20 anni fu proprio questo a far arrabbiare molti. Arrivò un premio di consolazione, alla sceneggiatura, e saputolo la sera prima, decisi di partire l’indomani mattina, per seguire il film nelle sale, dedicarmi al pubblico (a ritirarlo andò uno dei protagonisti, Luigi Lo Cascio, ndr). Ero molto arrabbiato, non lo nascondo. Non fu una fuga, ma un segnale d’amore per un lavoro che ho amato molto. Non ero l’unico amareggiato, ricordo un Giancarlo Leone furioso. Ancora oggi mi stupisce quanto, venticinque anni dopo, su quel tema ci fosse così tanta partigianeria: poi ho capito che era la prima volta che si provava a guardare quel fenomeno, quell’epoca con occhi diversi. E in pochi erano pronti a farlo”.

Il Leone d’Oro alla carriera

Sorride, più disteso. Va avanti con la memoria. Con le scene, il film della Venezia bellocchiana prosegue. Si ferma al 2011. Edizione numero 68, a proposito di cabala e corsi e ricorsi, Leone d’oro alla carriera.

“L’abbraccio con Bernardo Bertolucci, il ricordo più bello. Lì io e Venezia ci siamo un po’ riconciliati”. E poi, come già accaduto a Miyazaki o a Newman e altri all’Oscar, ecco tornare in competizione dopo il premio alla carriera. Con Sangue del mio sangue e Bella Addormentata. “Ovviamente nessun premio, comunque è il mio destino ricevere riconoscimenti alla carriera e tornare poi in concorso, è successo anche a Cannes” chiosa con un po’ di ironica stizza. “Ma neanche tanta, con l’età, soprattutto in un momento come questo in cui sono sempre coinvolto in nuovi progetti, il dispiacere passa più in fretta. L’età però ti fa venire molta meno voglia di essere giudicato. Mi sa che devo fare come i grandi maestri americani, come Allen e Scorsese, andare fuori concorso. Tanto il prossimo progetto su Enzo Tortora sarà probabilmente una miniserie, quindi non potrò fare altrimenti!”.

Ma non è così sicuro, quando lo dice. “Perché se poi accetti di essere in gara ci credi, ci pensi, ti aspetti qualcosa. Ma i premi hanno logiche troppo spesso casuali, l’ho visto anche da giurato, il presidente era Emir Kusturica. A Venezia e per gli italiani, poi”.

L’Italia, il paese dove sono i morti a comandare. “Una frase de Il regista di matrimoni, lì ironicamente avevo inserito il premio dei David di Michelangelo, riconoscimento esterno da cui il regista Smamma era ossessionato e che lo rovina. Un mio gioco, una polemica scherzosa. Sai, le bacheche si riempiono per tanti motivi e spesso c’entra anche la tua storia personale, nel mio caso l’adesione all’analisi collettiva di Fagioli è stata sempre aspramente condannata. Se non ti allinei al pensiero dominante, va così. Aggiungi pure che io non ho fatto nulla per rendermi simpatico”. A proposito di cultura dominante, Marco Bellocchio ha raccontato politica e religione come in Italia nessuno vorrebbe, ancora oggi. “Per questo mi sorprende questa bella e vitale vecchiaia passata con il favore della critica e di un mondo in passato ostile. Ma non sono un sopravvissuto, è bellissimo mettersi ancora così tanto in gioco”.

Marco Bellocchio e i minuti di applausi

Tornando a Venezia, è sorprendente scoprire che non ci siano riti particolari, scaramantici nelle giornate alla Mostra del maestro. “Anche perché se ci fossero stati, non avrebbero funzionato granché bene. Ma ho visto attori che non si passano il sale, quando sono al Lido. Io non ne ho, ormai poi c’è troppo poco tempo tra obblighi mediatici e cerimoniali e lettura dei giornali post proiezione. Ma un’abitudine veneziana che mi fa molto sorridere è la conta dei minuti di applausi. Dieci, quindici, venti. Immagina il dolore fisico di queste povere claque, di questi invitati spesso cooptati. Mi fanno ridere come i fotografi che ti urlano “Marco!” come se dal fatto che tu guardi nella loro camera passi tutta la loro vita. E lo fanno sempre, quando scendi dal motoscafo, sul red carpet, al photocall”.

Grazie Marco, 90 minuti di applausi.

L’articolo originale è stato pubblicato sul magazine The Hollywood Reporter Roma di agosto.