Cristiana Dell’Anna, da boss a santa: “Perché non posso diventare Totò?”

Dal 31 maggio Mixed by Erry sarà su Netflix. E in uno dei film più sorprendenti ed entusiasmanti della stagione c'è anche lei, mater familias sui generis, attrice partenopea e parte cosmopolita. Una che dalla Patrizia di Gomorra arriverà a interpretare una santa della fine del XIX secolo

La carriera di Cristiana Dell’Anna è come un libro. È fatta, dice, di capitoli. E ogni capitolo si scrive con la fatica e la passione, e può iniziare e finire in due posti totalmente diversi. Cristiana Dell’Anna ha cominciato in tv, tra Un posto al sole e Gomorra. Ha studiato in Accademia, a Londra. Ha trovato la meraviglia del cinema e la concretezza del teatro. Nel suo ultimo film, Mixed by Erry, interpreta una madre. E questa l’ha portata a interrogarsi. Ama Napoli, e la ama in un modo sincero, spontaneo, che va al di là del sangue e del senso di appartenenza. Ne vede la bellezza perché, per diverso tempo, l’ha lasciata. Ha recitato per Mario Martone, in Qui rido io, e per Paolo Sorrentino, in È stata la mano di Dio. È andata anche negli Stati Uniti, ultimamente. Per girare Cabrini (sulla santa soprannominata “patrona degli emigranti” Francesca Saverio Cabrini) di Alejandro Monteverde.

Oggi vive in Toscana, con suo marito e tre cani.

La sua città le manca?

Sì, soprattutto in questo periodo.

Perché?

Per il clima di solidarietà che si respira. Dopo la vittoria dello scudetto, ho riscoperto un sentimento che credevo di aver perso.

Di che sentimento si tratta?

Di cosa vuol dire essere napoletani.

Mi dica.

Io non ho niente a che fare con il calcio. Lo seguo e l’ho seguito, come tutta la mia famiglia. A Napoli è estremamente amato, lo sappiamo; a volte, forse, anche troppo. Nonostante questo, però, resiste un sentimento di comunità.

È voglia di riscatto?

No, no. Quella non c’entra. Forse c’è stata una volta in cui era così, sì. Ma ora è differente. Ora è voglia di vincere, di esserci, di stare insieme. Mi è piaciuta molto la descrizione che ha dato Michele Serra di questo fenomeno.

E cioè?

Napoli, ha scritto, riesce sempre a ribaltare le carte in tavola, a rinnovarsi. Napoli dimostra, e questo lo aggiungo io, che le cose si possono cambiare se si fa squadra. C’è stata come una “sportificazione” del senso di comunità. Una cosa che, storicamente, la nostra città ha avuto in ogni epoca. I napoletani rinascono tutti i giorni, e rinascono come popolo.

Napoli, a volte, può rappresentare una sfida. Quasi una responsabilità. Proprio per la sua tradizione di teatro e cinema.

Secondo me no. Secondo me, anzi, i grandi nomi sono un punto di arrivo, un esempio. Questa cosa probabilmente riguarda una certa generazione. Una generazione diversa dalla mia. C’è un aspetto, poi, che mi differenzia da altri colleghi. Io sono donna, e voglio arrivare allo stesso livello dei grandi come Totò, Eduardo, Pino Daniele. Seguendo i festeggiamenti a Napoli, ho notato che tra le tante foto esposte mancava – o, ecco, non l’ho vista io – quella di Sophia Loren. Ed è una cosa che, lo ammetto, mi rattrista.

E che cosa le fa capire?

Che io, con questi idoli, non ho mai cercato il confronto. Ho sempre voluto raggiungerli. Sono dei modelli. Non necessariamente nel compiere gli stessi passi, no. Ma nel rappresentare Napoli sì. Ecco, questa cosa, in particolare, me l’ha insegnata Troisi.

Perché?

Perché non si è mai tirato indietro dall’essere napoletano. Ed è qualcosa che io, invece, per riaffermare proprio la mia napoletanità, ho fatto. Sono andata via da Napoli, e ho provato a immergermi completamente nella cultura inglese. Ho preso anche alcune delle loro abitudini. Spesso, anzi, ragiono come loro. Ne ho acquisito parte della mentalità.

Che cosa ha provato quando è tornata a Napoli?

Nel 2012, quando sono rientrata dall’Inghilterra, l’ho ritrovata. Semplicemente. Andare lontano mi ha permesso di mettere a fuoco quello che volevo. E questo, ancora una volta, nonostante gli ostacoli che come donna dovevo superare.

Resistono ancora i pregiudizi nei confronti dei napoletani?

Più che pregiudizi, è invidia. Perché siamo bravi (ride, ndr).

Mi parlava degli ostacoli che, come donna, ha dovuto superare. Quali sono stati?

A seconda della tua provenienza geografica, finisci per essere sottovalutata. Vista solo in un certo modo: come una persona che ha meno capacità. Questo si concretizza nell’essere pagati e chiamati di meno. E non è proprio vero che le cose stanno cambiando.

In Italia?

In Italia, sì. Altrove le cose cambiano. Ma lentamente. Qui da noi resistono ancora le polemiche. Basta fare attenzione ai dibattiti che ci sono. La donna viene limitata, e spesso viene limitata perché non viene capita. Io, che sono nata negli anni Ottanta, ho vissuto questo pregiudizio, questa limitazione, sulla mia pelle. In società e in famiglia. Una limitazione di ruoli e ambizioni. Per non parlare di tutti i messaggi subliminali di cui la vita e la nostra educazione sono piene.

Come si supera questa limitazione? O meglio: è possibile, secondo lei, superarla?

Per tanti anni, mi sono ripetuta di essere io il problema. Perché non potevano essere sempre e solo gli altri. In realtà, è una cosa che ci appartiene come società, come cultura, questa limitazione. Si può superare, certo. Ma ci vuole tempo, e bisogna soprattutto esserne consapevoli: il sessismo esiste; la misoginia esiste. Io non so quante volte ho dovuto dimostrare di essere all’altezza degli altri, di essere anche meglio.

Il 31 maggio, su Netflix, arriverà Mixed by Erry. Che cosa l’ha attratta di questo progetto?

È stato Sydney Sibilia, il regista, a offrirmi la parte; e sono stata molto contenta di averla. In genere, succede il contrario.

Cioè?

Sono io a rompere le scatole per avere una parte. Ovviamente, e ci tengo a specificarlo, restando sempre nei limiti.

Quali?

Devi avere un minimo di consapevolezza. Devi essere giusta per la parte ed essere sincera con te stessa.

In questo caso com’è andata?

Ero negli Stati Uniti, per le riprese di Cabrini, e ho mandato un self tape. Mi hanno ricontattato mesi dopo, dicendomi che la parte era mia.

È stata contenta?

Certo, lo sono stata. Soprattutto perché mi ha permesso di aggiungere un’altra sfumatura al mio curriculum e perché mi ha permesso di dimostrare di saper gestire anche il registro comico, non per forza drammatico. E poi è stata un’esperienza veramente divertente, e quella di Mixed by Erry è una delle storie che mi piace di più raccontare.

Quali sono queste storie?

In questo caso parliamo di un antieroe, di un personaggio che ha un sogno e che anche nella sua condizione, nella sua povertà di risorse e possibilità, riesce a realizzarlo. Erry voleva fare il dj, non dimentichiamocelo. Ha finito per influenzare la cultura di una città intera. Sbagliando, chi dice di no: la pirateria è illegale. Ma inseguendo il suo desiderio. Tutto quello che voleva, in fondo, era realizzarsi. Gli effetti di Mixed by Erry ce li ricordiamo: io sono nata dopo quel periodo, ma pure io, indirettamente, l’ho vissuto. Tornare indietro mi ha fatto pensare al modo in cui vivevo da ragazza, a un’altra Napoli, a uno scudetto di cui non mi posso ricordare perché ero troppo piccola, ma che è sempre stato presente.

Lei interpreta una madre. Ha imparato qualcosa sull’essere genitori?

Da poco è passata la festa della mamma, e ricordo che per l’occasione ho cercato il termine sanscrito per madre, matr. Ecco, ci sono due radici in questa parola. “Ma” che vuol dire misurato, e “tr” che vuol dire funzione. Quindi la matr è colei che gestisce il limite o la necessità delle cose secondo il tempo e la natura.

E nel caso di Mixed by Erry?

Il mio personaggio è quasi l’opposto. Perché non ha questa consapevolezza. È una donna che forse non sa nemmeno quello che sta facendo. Si occupa della praticità della vita. E in questo sì, mantiene un controllo sulle limitazioni. È, in un certo senso, la casa. La famiglia matriarcale napoletana, più di altre famiglie, si avvicina al significato sanscrito di madre.

Martone o Sorrentino?

Sono diversi. Come la luna e il sole o il giorno e la notte. Sono due esperienze di uguale intensità ma quasi all’opposto. Sono interpreti delle loro storie. Non sono necessariamente solo registi. Attraverso i loro film, raccontano quello che hanno dentro, che vogliono dire. Sorrentino lo fa in modo più “sorrentiniano”: con metafore, allegorie e riferimenti estremamente autobiografici. Mescola costantemente la messa in scena con l’immaginazione.

E Martone?

È più, diciamo così, centrato. Studia tantissimo prima di andare sul set. E sa. Mi creda: sa tante, tante cose. Ti sorprende con la sua conoscenza. Rimane molto sulla realtà, sulla concretezza del terreno. Sorrentino, forse, va su un altro livello. Quasi, e sottolineo quasi, trascendentale.

Su Martone pesa la sua esperienza teatrale.

Sicuramente. Martone è un teatrante a tutti gli effetti. Tutto ciò che prende vita sul palcoscenico ha un effetto sul suo lavoro cinematografico. E poi, lo ripeto, ha una cultura vastissima. Se inizia un progetto, di quel progetto saprà ogni cosa.

Quant’è difficile fidarsi di un regista?

Dipende dal regista.

Riformulo: quant’è difficile fidarsi delle persone?

Per me è un atto liberatorio, le dico la verità. Sono sempre stata molto diffidente nella vita. Nello spazio del teatro e sul set, questa cosa si è annullata. È la prima lezione che impari quando vai in accademia. Ti spiegano come fare per fidarti del tuo compagno. Quindi per me, sul lavoro, non è difficile fidarmi. Se c’è un testo che mi piace un po’ meno, sono sicura che, una volta lavorato, avrà comunque qualcosa da offrire.

E questo vale anche per i registi?

Certo. Ricordiamoci, però, che sul set c’è una struttura gerarchica. Quella del regista è, e deve essere, l’ultima parola. Io devo fidarmi della sua visione. È una sorta di obbligo lavorativo, ed è, se vogliamo, naturale.

Le è mai capitato di sentirsi tradita?

Sì.

E come si supera questa cosa?

A volte è difficile, non lo nascondo. Sai che c’è un confine, e ti dici di rispettare quel confine. Esiste il compromesso. Io faccio di tutto per sostenere la mia idea, ma devo pure tenere presente la visione del regista.

Quanto sono importanti, per un’attrice, i no?

Sono fondamentali. Credo di aver costruito la mia carriera sui no. Anche rifiutando ruoli che mi piacevano e che ho dovuto lasciare andare.

Ma perché sono così importanti?

Perché ti danno una direzione. Quando non ho fatto un progetto, e mi sono sentita dispiaciuta per questo, ho dovuto ricordare a me stessa che sì, quando si chiude una porta si può aprire un portone, come si dice a Napoli, ma che c’è abbastanza lavoro per tutti in questo mondo. Non bisogna vivere di rimpianti. Ritorna il concetto della fiducia, se vuole. Fiducia anche nel collega o nella collega che ha ottenuto la parte che desideravi per te.

Per trovare un nuovo equilibrio, è andata via da Napoli. Per trovare l’equilibrio della prossima fase della sua vita dovrà lasciare l’Italia?

Forse sì. Io ho capito che essere napoletani, a volte, significa essere migranti. Nel senso di approccio all’esistenza. Napoli è un posto che si lascia e in cui, poi, si torna. È un porto: hai sempre voglia di partire. Personalmente non mi è mai bastato quello che avevo. Ogni fase della mia vita è stata un capitolo: bellissimo, per carità; ma un capitolo. E quindi andava chiuso per andare avanti.

Che cosa significa, per lei, andare avanti?

Vedere oltre è la più grande ossessione della mia vita. Poter andare avanti, continuare a imparare e a migliorare: è ciò che, alla fine, sono. È il motivo per cui recito.

Questo nuovo capitolo ha già un nome?

No. Perché secondo me, per dare un nome a un capitolo, serve prima scriverlo. Per tanto tempo ho desiderato tornare in Inghilterra: mi manca quel teatro. Questo non vuol dire, però, che nel prossimo capitolo ci sarà un taglio con l’Italia. Anzi. A vent’anni credevo di dover abbandonare questo paese per sempre. E invece no, capisci che la tua te stessa si trova anche al punto di partenza; e io questa cosa non voglio perdermela.

Insomma si finisce per diventare adulti.

Sì. Si diventa completi: un tutto.