Davide Marengo è uno di quei registi che ha saputo creare una sua cifra stilistica, estetica e narrativa, pur sapendosi dividere tra film desiderati o prodotti su commissione, sperimentandosi in generi anche molto diversi tra loro, sapendo dirigere attori con preparazioni e talenti differenti.
Quando il cinema lo ha penalizzato – un film, ottimo, non uscito (Breve storia di lunghi tradimenti), un successo cult sottovalutato (Notturno Bus) e una commedia commerciale gustosa non apprezzata come meritava (Un fidanzato per mia moglie) – lui ha saputo reinventarsi in tv. Con il coraggio dell’autore che non segue la scia di successi altrui, ma invece prova a percorrere sentieri inesplorati, soprattutto per la tv generalista.
Ecco allora non ha avuto timore di mettersi a capo di una squadra coesa e di successo in Boris 3, di proporre l’amato e di nicchia Sirene, di dare il meglio ne il clamoroso Il cacciatore (tra le migliori serie italiane del decennio). E quest’anno è arrivato Un estate fa: Lino Guanciale e Filippo Scotti che giocano su due piani narrativi e temporali, un po’ un Richard Curtis all’italiana, lavoro rischioso e affascinante che Marengo sa condurre in porto con successo.
Con la sua capacità di restituirgli una luce tutta sua.
Quando ho letto la trama di Un’estate fa, ho avuto paura. E lei?
Confesso che sì, all’inizio il pensiero di raccontare un viaggio nel tempo, una storia poco praticata nel nostro audiovisivo, non mi convinceva. Ma approfondendo un po’ le intenzioni degli autori e anche lo sviluppo della sceneggiatura che mi è stato prospettato ho visto una luce che poteva assomigliarmi
Quell’idea era un pretesto per un percorso interiore, perché tutti noi per nostalgia o memoria facciamo sempre questo tipo di viaggio. Capito questo, ho tremato meno, ho compreso che non dovevo rifare un ritorno al futuro all’italiana.
Lei poi si è posto una sfida in più. Due attori diversi per ogni personaggio, a seconda della linea temporale. Lo hanno fatto Francis Ford Coppola e un altro paio.
E le diro che è sta stata proprio una bella sorpresa, soprattutto andando avanti con la lettura e con lo sviluppo della sceneggiatura: avevamo un pool di persone bravissime che ha costruito queste due epoche, dividendo il racconto a metà tra esse, lavorando con attori diversi nel ruolo degli stessi personaggi. Il rimbalzo tra tempi differenti, la riscoperta di anni bistrattati come i ’90 mi ha permesso peraltro di pescare nella mia stessa biografia.
Avevo 18 anni nel 1990, questa coincidenza la luce di cui parlavo prima l’ha fatta proprio brillare, mi ha fatto tornare al cinema che amo e mi ha cresciuto. Fare Un’estate fa, insomma, mi ha emozionato, perché non mi era mai successo di portare nel mio lavoro la mia memoria individuale, i miei ricordi.
Il fantasy è un genere, citando Enzo Facchetti, in arte Stanis La Rochelle, “molto poco italiano”. Ma lei ci si era già cimentato.
Certo, Sirene pur diversissimo giocava anche quello sul concetto di doppio, di mondi “paralleli”. Va detto che quel racconto è stato digerito decisamente peggio di Un’estate fa, probabilmente i tempi non erano maturi per me e per il pubblico. Però, confesso, non è un genere che amo, a meno che non ricada in un contesto di mescolanza di generi e non sia un pretesto per raccontare l’ambiguità umana. A volte il fantasy viene usato per barare, per trovare scorciatoie narrative e visive.
E lei non ama facilitarsi la vita?
Direi di no, ad esempio noi qui non seguiamo la moda dei finali aperti, in attesa magari di una seconda stagione. Qui la storia chiude un cerchio e quindi, che piaccia o no, c’è un finale vero, il viaggio, la riflessione interni del personaggio si compiono e credo, spero abbiano provocato un percorso di introspezione, di ritorno al passato anche per lo spettatore.
Il nostro è un invito a farci avvolgere dal passato non per rimpiangerlo, ma per farci i conti. Scoprirsi, anche fisicamente, persone completamente diverse ma con una continuità. Vent’anni, d’altronde, sono un tempo che può portare a cambiamenti radicali.
Ecco perché ha senso avere due interpreti diversi, perché Lino e Filippo raccontano lo stesso essere umano ma al contempo due persone, caratteri diversi. A 18 anni si può essere timidi e vent’anni dopo sfrontati e coraggiosi, di sicuro da adolescente per certi versi sei spensierato e due decenni dopo sei schiacciato dalle responsabilità. E quest’ultime ti modificano nel profondo.
Questo aspetto viene molto evidenziato nella serie, il dialogo che si crea tra l’adulto reale e l’adulto che va nel corpo del se stesso giovane materializza una riflessione inevitabile su com’eri e come sei diventato e come saresti potuto essere se avessi fatto delle scelte diverse.
Nella sua carriera si trovano generi, ritmi, strutture narrative diverse, persino opposte. Sembra il curriculum di quattro cineasti diversi.
Mi fa piacere sentirlo, ma è anche un’arma a doppio taglio. Intendiamoci, non potrei essere altrimenti: non sono il tipo che va tutte le estati nello stesso posto, io viaggio per scoprire il mondo. E per me il cinema, la tv sono avventure, devono essere sempre diverse. Per me ogni lavoro necessita di essere qualcosa di diverso per potermi divertire, arricchirmi, per esplorare cose nuove.
Penso a quello che farò: presto uscirà Brennero su RaiUno, l’ho girato a Bolzano e si fonda su indagini un po’ in stile nordico e nel frattempo sto montando una serie che si chiama Vanina Guarrasi con la Palomar, una specie di Montalbano della TV generalista. E sto sviluppando un altro progetto ancora più ambizioso di cui non posso dire nulla ma che mi porterà ancora più lontano da ciò che ho fatto in passato.
In tv però tutto questo non è detto sia considerato un pregio, non hai una cifra che ti consenta di avere una riserva di caccia dove sei considerato il migliore, a volte magari fanno fatica a riconoscerti. Pensa a Sollima, anche solo se supervisiona una serie tu lo capisci subito.
Ci sono tante serie nel suo futuro. Un ritorno al cinema non è previsto?
È qualcosa che mi piacerebbe moltissimo fare, ma è un momento d’oro per la serie tv e le offerte sono molto interessanti, c’è la possibilità di sperimentare e di raccontare grandi storie.
Ma sarei un bugiardo se dicessi che il grande schermo non abbia un posto speciale nel mio cuore. E non parlo tanto dell’emozione di vedere il tuo lavoro in una sala, che pure è qualcosa di unico, ma proprio del fatto che vorrei cimentarmi di nuovo con una forma breve di racconto, sfidarmi in quel tunnel degli orrori e delle meraviglie che è un lungometraggio, in cui fai scelte precise e ti prendi grandi rischi, rispetto a una serie che ha tante criticità ma è come un luna park, puoi scegliere le attrazioni che vuoi e hai tutto il tempo per godertele.
Ci sto lavorando, sto mettendomi nella possibilità di farlo, ma voglio che sia un progetto serie, visto il mio passato non fortunatissimo. Voglio fare la scelta giusta, non credere per anni in un progetto e poi rimanere deluso. Mi affiderò come spesso accade all’istinto.
Poi che devo dirti, Il cacciatore, con il suo crime che mette insieme finzione e realtà, che ha l’ambizione di farsi grande racconto epico ed etico e allo stesso tempo di raccontare l’Italia di una certa epoca così come Un’estate fa per me sono cinema, ti mettono in gioco ai più alti livelli. Alla fine è solo una questione di passo, come il mezzofondo e i 10ometri, devi capire che l’allenamento, l’approccio alla gara sono diversi, i movimenti sono simili.
Ciò che affascina di Un’estate fa, ora su Now, è la ricostruzione storica. Non solo filologica, ma anche psicologica e sentimentale. Il passato non solo com’era, ma come ce lo ricordiamo, com’è nel nostro immaginario. È stata una scelta precisa?
Le scelte estetiche, dei costumi, le scenografie, è vero, le abbiamo immaginate prima emotivamente. Merito anche di collaboratori veramente notevoli a fotografia, montaggio, scenografie e costumi, appunto, l’approccio è stato quello di non essere neorealisti per identificare gli anni ’90 ma cercare di essere un filo favolistici, perché parliamo di un ricordo filtrato dalla memoria di un cinquantenne.
Così abbiamo giocato con la pittura, con gli oggetti – dal pallone Super Santos al gelato Calippo – con le musiche. Volevo raccontare l’unica generazione, la nostra, che ha vissuto cambiamenti a velocità supersonica, come nessun altra, siamo nati analogici, stiamo vivendo digitali e chissà, moriremo virtuali. Io a 18 anni giocavo con una telecamerina, stampavo le foto in casa, non potevo sbagliare scelta delle immagini, ora invece hai possibilità tecnologiche infinite.
Banalmente se avevo un appuntamento ed ero in ritardo, non potevo avvertire. Dovevo solo sperare che mi aspettassero. E magari quel ritardo diventava un bivio della tua vita, incontravi qualcuno perché i tuoi amici se n’erano andati, la tua vita poteva cambiare per qualsiasi motivo. In qualsiasi modo.
Attenzione, stiamo diventano boomer…
Parlavamo di più, ora non voglio fare il vecchio che dice quanto era bella l’epoca passata, ma è cambiato moltissimo il mondo e il nostro modo di vivere. Poi non è detto che allora fosse migliore, ma dovevo spiegare che ci trovavamo di fronte a un’epoca e a una generazione uniche. Per dire, una carriera come la mia vent’anni prima oppure ora sarebbe impossibile.
Si aspettava questo successo di Un’estate fa?
Sapevo che la storia aveva un suo potenziale, sapevo che avevamo fatto un lavoro bello e importante. Ma non immaginavo questo passaparola, questo entusiasmo del pubblico. Speravo che Un’estate fa sarebbe stata notata e pure che magari ne avrebbero potuto scrivere bene. Ma il ritorno di pubblico che c’è stato, però, no.
Come ha lavorato con Lino Guanciale e Filippo Scotti? Immaginiamo che a dispetto dello stare separati nella storia, abbiano lavorato molto insieme per riverberarsi l’uno nell’altro.
Lino lo abbiamo scelto subito, l’avevo apprezzato anche a teatro, e soprattutto aveva una gran voglia di fare qualcosa di diverso dall’immagine che il pubblico si era fatto di lui. Ed è sempre stimolante per un regista quando hai un attore noto che vuole essere diverso.
Filippo l’avevo visto nel film di Sorrentino e lui e il film mi erano piaciuti moltissimo, ero stato subito catturato da quello sguardo fragile e curioso che era esattamente quello che cercavo per Un’estate fa. La voglia di stare in un’epoca con lo sguardo di oggi ti rende curioso doveva unirsi alla fragilità di una persona piena della consapevolezza, del dolore di sapere che ha a che fare con una ragazza che di lì a poco morirà e desidera fare di tutto per salvarla, ma non sa come.
Questi intrecci sono passati anche per gli incontri tra Lino e Filippo, per questo abbiamo voluto che lo facessero anche gli altri attori. Dovevano avere una relazione con il proprio omologo e c’è stato un momento in particolare in cui abbiamo messo tutti e tutte gli uni di fronte agli altri.
Una coppia in particolare l’ha stupita?
Ricordo ancora come Claudia Pandolfi e Mattina Gatti fossero ipnotiche, si scoprivano simili l’una negli occhi e nelle movenze dell’altra, naturalmente, per noi che le guardavamo da fuori era qualcosa di magico.
Si trattava di un test fotografico in cui per la prima volta si vedevano anche dal vivo e ho deciso di girarlo, vorrei proprio sapere dov’è quel materiale video, mi piacerebbe rivederlo. Ci siamo tutti emozionati perché si sono avvicinate lentamente, si sono abbracciate e hanno iniziato a fare anche delle cose simili per giocare. Abbiamo fatto incontrare due generazioni di attori ed è stato bello. Professionalmente e umanamente.
Ora con pazienza aspettiamo la seconda stagione?
Non so, non ho la palla di vetro, credo ci siano tutti i presupposti. Possiamo portare avanti una seconda stagione ma non con tutti gli attori, non mi far spoilerare! Secondo me dobbiamo lavorare sul concept, immaginare stagioni alla True Detective, prendendo la stessa struttura narrativa e la stessa idea di base, costruendo percorsi autoconclusivi, non necessariamente con una continuity diretta. Insomma nulla ci vieta di viaggiare in epoche diverse, magari anche con personaggi diversi!
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