“Sistemare i vestiti, il portafoglio, la giacca nera sul letto. Nella stanza 135 dell’Excelsior, sempre la stessa, aprire la valigia. Quello era il mio momento preferito del festival”. Guarda verso la porta oltre le mie spalle, nel suo ufficio “che mi regalò mio papà, l’ho voluto io così, con porte che accedessero su ogni ambiente”. Parla come se rivedesse la scena, Enrico Lucherini. “E regolarmente da quella valigia la prima cosa che saltava fuori era il papillon. L’avessi mai messo, odiavo lo smoking, lo tenevo in tasca dicendo a ogni proiezione che l’avevo dimenticato. Mi è sempre andata bene”.
Enrico Lucherini e Luchino Visconti
Novantuno anni, il press agent per eccellenza ha una romantica ironia nel raccontare l’arena in cui ha rivoluzionato le regole della comunicazione, che trasuda delle sue intuizioni e di aneddoti che sono rimasti appiccicati al pavimento, alle pareti di quella stanza mitica, che nessun altro poteva prenotare. “Non me ne fregava nulla di essere ai piani alti, mi serviva qualcosa che mi desse facile accesso a tutti gli ambienti utili, alla passeggiata in riva al mare sempre buona per qualche fotografia, alla reception, all’uscita. In quella zona, in quel piano c’eravamo solo io, le produzioni e le distribuzioni”. Alza il braccio, indica qualcosa di indefinito, in realtà descrive la finestra di quella camera come se l’avesse davanti. “Dava sul mare e c’era un pino, piccolo. Che crebbe, di anno in anno, fino a coprirmi il panorama e a togliermi il sole. Poi, quando tornai dopo diversi anni, l’ultima volta, nel 2013, con Ettore Scola, con Che strano chiamarsi Federico! ripresi la stessa stanza. E quell’albero era cresciuto così tanto che potevo tornare a godermi il panorama. Ricordo di aver sorriso, forse persino commosso”. I gesti eleganti, i ricordi precisi, gli occhi che si muovono come se stessero lì. “Un anno siamo arrivati ad avere 24 film alla Mostra. Ne abbiamo fatte, lì a Venezia. Con Matteo (Spinola, ndr), mi manca molto, ma anche con Gianluca (Pignatelli), è bravo sai?”. Lo so, lavoriamo insieme da anni, è uno dei migliori. Torna subito a Venezia, Enrico.
“Se quelle pareti potessero parlare”. Di sicuro ascoltavano. Come le sue orecchie appoggiate a quest’ultime, nel 1965. Lui ha poco più di 30 anni, ma è già il re degli scoop, delle foto iconiche, della promozione cinematografica. Delle lucherinate, perché quando sei il più grande, diventi un aggettivo. “C’era la giuria che deliberava. Qualcuno urla, qualcuno risponde. Dopo un po’, sono d’accordo. Ha vinto il mio amico Luchino Visconti. Esco di corsa, come un matto, per andarglielo a dire. Lui era quasi arrabbiato, non amava quel film, Le vaghe stelle dell’orsa. Senso, diceva, lo meritava molto di più e invece l’hanno ignorato”. Il maestro, con cui c’è stato un sodalizio di affetto, stima e segreti inconfessabili. “Luchino scappava da me, la sera, appena poteva”. Finito il set, dove girava con accanto la giovane intellighenzia dell’epoca, politica e impegnata. “Ma lui voleva vedere me. Mi diceva ‘Citto e Suso vogliono parlare di società, di lavoro, di comunismo, dio che noia. Ma non posso dirglielo!’. E allora mi chiedeva di accendere la tv, adorava i varietà e le soubrette, sapeva tutto di quel mondo. Ce li vedevamo insieme. Ma non potevamo dirlo a nessuno: un pomeriggio andammo a vedere Sciarada, ma mi obbligò al silenzio. Visconti non poteva amare il disimpegno agli occhi degli altri! Sapeva essere perfido Luchino: quando andammo al cinema a vedere La strada lui commentò: bello, bellissimo, ma lei (Giulietta Masina) sembra Macario”.
Gli inizi, come si inventò un mestiere e le Lucherinate
Vola, Enrico, un po’ affaticato nel corpo ma con quella voce inconfondibile che sembra fendere l’aria, un bambino che non si stanca di giocare con il suo giocattolo preferito. Il cinema. “Un colpo di fulmine a soli 8 anni. Mio padre ha un congresso di medici a Roma e mi porta a Cinecittà, io vedo un set, sono attratto da queste luci meravigliose e mi intrufolo. Era Imputato, alzatevi di Mario Mattoli. Vedo uscire Macario, impazzisco. Sento urlare ‘Ciak, Azione’ e perdo la testa”. E al Lido, a Venezia, l’uomo che ha reso icone decine di star, voleva finirci da attore. “Totò abitava a 100 metri da casa mia, lo incontravo spesso, lo chiamavo principe, gli ero simpatico. E così mi mise a fare la comparsa, anzi mi fece dire pure qualche battuta in un film. Ne Il coraggio, di Domenico Paolella. Ma non funzionò, ero troppo irrimediabilmente cane. Però facendo il generico ho cominciato a conoscere la gente del cinema. E le dive”.
L’album delle dive di Enrico
Già, perché Enrico Lucherini si innamora perdutamente delle star. “Da Silvana Mangano a Monica Bellucci, l’ultima diva, le ho amate tutte. Le ritagliavo dai rotocalchi e le attaccavo in un quaderno”. Un album di figurine ante litteram. “Ma per me rimangono uniche quelle che stavano uscendo dal fascismo per entrare in questa Italia nuova, libera, entusiasta. “Alida Valli”. Dice quasi sognante. Ne mette insieme parecchie, delle nuove dive, Mauro Bolognini ne La notte brava.
“E da lì, parte un lavoro che mi invento io. Tutti a dirmi che simpatico Lucherini, che divertente Lucherini, e io allora mi sono chiesto come potessi aiutare quest’arte che amavo così tanto e come rendere grande il cinema italiano. Usando questa empatia, anche. Nascono così le notizie che prendevo un po’ dai paparazzi, un po’ dalla mia fantasia, sempre però con un fondo di verità. Sempre al fine di lanciare un film, un titolo, da farlo rimanere nella memoria collettiva. E cercavo sempre di andare controcorrente: tutti, ai tempi volevano Catherine Spaak, ninfetta di Lattuada, mezza nuda? E io le facevo mettere un vestito nero abbottonato fino all’ultimo bottone e un colletto bianco. Da quell’idea tutti si fidarono di me, anche Sofia Loren che veniva dagli Stati Uniti dove i publicist, così si facevano chiamare, erano tutti più vecchi di me di almeno 30 anni. Io ero un ragazzino, ma avevo la fiducia di grandi produttori come Goffredo Lombardo e Carlo Ponti. E si fidò quando le dissi: che ti frega d’essere bella, in questo film sei brava”.
È nientemeno che La ciociara, il film. “Vedendolo a un certo punto capii che la sequenza in cui urlava e piangeva, dopo lo stupro della figlia, era al livello della corsa di Anna Magnani in Roma città aperta. Così uscimmo con la foto in cui tira il sasso alla camionetta con una smorfia rabbiosa e disperata, un’immagine bellissima che peraltro in quel momento si contrappose ai ritratti suoi che arrivavano dagli Stati Uniti, in cui era una star stupenda e inarrivabile”.
La stanza 135 dell’Excelsior
Districarsi nella memoria enciclopedica lucheriniana non è facile. Torna da dove è partito, nella stanza 135 dell’Excelsior. “Dove venivate anche in 10 o in 12 per quelle che ora chiamate roundtable o minipress, ma quegli incontri ristretti, per pochi, l’ho inventati io. Sceglievo accuratamente i partecipanti, in base al talento e al film, erano chiacchierate più sofisticate. Eravate quasi tutti in piedi oppure appoggiati alla scrivania. Una di quelle sere, veniamo investiti nella stanza da una luce fortissima. Esco, usciamo”. Luci, le stesse che lo accecarono a otto anni. “Era Sergio Leone, con C’era una volta in America. Sotto la mia finestra. La scena d’amore, il tappeto messo sulla spiaggia e loro che si baciano, fanno l’amore con la bottiglia di vino accanto”. Nessuno ti amerà mai come ti ho amato io. “Un genio, il mondo del cinema era là e lui gira l’ultima scena a Venezia, durante la Mostra. Perché ne parlino tutti. E così accade. Tutti pensavano l’avessi organizzato io e mi chiedevano cosa stesse succedendo. Io ho lasciato che lo credessero”. Hai aspettato molto? Tutta la vita. “La scena nel ristorante, Robert De Niro e Elizabeth McGovern, dio quanto mi piaceva, la trovavo magnifica, l’avevano girata il giorno prima del festival, prima che arrivassero tutti”.
Quella stanza 135, prenotata per decenni a nome Enrico Lucherini, ne ha viste troppe. “Come Anne Parillaud e Beatrice Dalle, al Lido per Fino alla follia, che impazziscono, la prima sospettava che la seconda, accusata di aver rubato in un negozio sui giornali, le stesse sottraendo degli oggetti. Finì con una nella mia stanza e una in quella di Gianluca, a cui andò parecchio male. Gli staccò le tende, non volle più uscire, chiamò i carabinieri. E tutto per una mia battuta”. E ancora un cineasta di cui non ricorda subito il nome, e definisce perfettamente “un Marco Ferreri americano”. “Abel Ferrara, che ha bisogno di un caffè e prende le tazze dei giornalisti, i loro fondi, li mette nella sua e beve, con tutti noi schifati. Ma dissi al fotografo, che mi portavo sempre dietro, di scattare. Non si sa mai”.
Enrico Lucherini: il cinema non mi manca
Dieci anni, senza Enrico Lucherini, e la Mostra non sembra la stessa. “Vanno i ragazzi, sono sincero, non mi manca. Prima, quando c’erano uno, massimo due film al giorno, ti divertivi, potevi valorizzarli, ora sono decine, in una Mostra trovi una ventina di film italiani e dopo pochi giorni l’hai dimenticati tutti”. E non ci sono più dive. “Come Sophia dove le trovi più? Ma lo sai che io mi emozionavo quando andavo a guardarla lavorare sul set? Ora chi c’è? La protagonista del film di Luca Guadagnino? Zendaya? Abbastanza cagna, possiamo dirlo?”. Non come Francesca Neri. “Bellissima, brava, simpatica, divertente, carisma pazzesco”.
Ma l’ultimo ricordo veneziano è per un uomo. Anzi due. No, tre. Massimo Troisi. Ettore Scola e Marcello Mastroianni. “Era il 1989, il film era Che ora è. Allora non ti venivano a prendere le macchine per fare pochi metri, si andava a piedi sul red carpet. Usciamo dall’albergo, c’era una gran folla, fotografi, Troisi fa pochi passi e poi mi dice “me ne vado”. Mi prende un colpo “come te ne vai? Dovete fare la foto, voi tre. “Io mi fermo” mi risponde. Corro un attimo avanti, dico a Marcello ed Ettore di affrettare il passo, che li avremmo raggiunti. È la mossa giusta, la folla e i fotografi vedendoli accelerare il passo, quasi correre, li seguono e si dimenticano di noi. Allora Massimo mi dice ‘parlami di qualsiasi cazzata, ma parla’. Io non so che dire, ma inizio a dire le prime cose che mi vengono in mente. E ricominciamo a camminare, con lui al mio braccio, me lo stringeva forte. Ettore e Marcello erano lì, fermi, ad aspettarci per la foto, non sapevano più che inventarsi per prendere tempo. Mi colpì molto la sua fragilità, la paura di quel successo che arrivava dalla tv e dai successi al cinema”.
Lucherinate? No, grazie
Sono passate due ore e più delle lucherinate, sono uscite confessioni, panorami spariti e riapparsi, un albero che cresce, un papillon sempre in valigia e mai usato. “E basta con queste lucherinate, è una definizione che non sopporto. Il mio è sempre stato un lavoro serio e così sembra una presa per il culo, la robaccia che fanno adesso”. Fa finta di non capire, Enrico Lucherini, che quel modo di pensare, immaginare, inventare la comunicazione cinematografica è rimasta unica. Così tanto, che nessuno ha saputo darle un nome. Se non il suo.
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