La verità di Paolo Rossi: “È il documentario la vera risposta ai blockbuster schiavi degli algoritmi”

L'attore e comico, uno dei protagonisti del film su Jannacci nei cinema in questi giorni, racconta gli insegnamenti ricevuti dal maestro: "In un paese davvero democratico l'artista deve avere il diritto di dire anche quello che non pensa, facendosi carico di tutti i pensieri non chiari che sente nell'aria". L'intervista con THR Roma

Una delle cartoline di Venezia 80 che ci porteremo via è Paolo Rossi, attore, comico, cantante e guitto geniale che sul red carpet suona una chitarrina mentre la banda dei Funkoff cantano Vengo anch’io.

Lui, da sempre un irregolare, si diverte a profanare quel tempio del fashion, della moda e della vanità con una mise casual (o quasi) e una performance giocosa, quasi infantile. Che sarebbe piaciuto al protagonista del documentario di Giorgio Verdelli Enzo Jannacci – Vengo anch’io, che della sua rivoluzione bambina, selvaggia e senza padroni, la stessa di Paolo Rossi, ha fatto una bandiera. Dall’11 al 13 settembre sarà possibile vedere il film  sul grande schermo – ne vale la pena, andateci – e qui ne parliamo con uno che il Maestro l’ha conosciuto bene.

Chi era per lei Enzo Jannacci?

Uno di quegli incontri che ti cambiano la vita. E non solo quella professionale, anche se il tempo con lui passato su un palco, persino quello di Sanremo 30 anni fa con I soliti accordi, in televisione, in esibizioni speciali mi hanno insegnato tantissimo del mestiere, ma anche e soprattutto quella privata.

Abbiamo passato tanti anni insieme, abbiamo lavorato a vari progetti e condiviso molto. E non sapevi mai dove finiva il privato e iniziava l’aspetto artistico, perché ogni giorno facevamo esperimenti in modo che tutto diventasse una performance. Persino leggere il giornale diventava un qualcosa da poter raccontare sotto forma di canzone o monologo, poco importava come, quando e dove.

Il primo insegnamento che le ha dato?

Mi ha insegnato a rischiare, a scommettere su me stesso, perché se colui che era il mio mito mi diceva che valevo qualcosa, che potevo buttarmi e provare a fare ciò che sapevo fare perché ero bravo, allora voleva dire che del talento c’era. Lui mi diceva sempre “e ricordati che se mi sbaglio è comunque meglio un fiasco trionfale che un successo sobrio”. E questa dritta l’ho seguita tutta. Pure troppo.

Se questo bellissimo documentario ha un difetto è che mancano un po’ le ombre di Enzo Jannacci…

Il suo lato oscuro era la cosa che più mi affascinava. Un cantante, un trovatore, un cantautore, un cantastorie, un comico – chiamalo come vuoi, in ogni epoca abbiamo cambiato nome – deve saper pescare anche nel buio della propria anima. In un paese davvero democratico l’artista deve avere il diritto di poter dire anche quello che non pensa, deve potersi fare carico di tutti i pensieri non chiari che sente nell’aria, non solo dei propri.

Lui era un talent scout compulsivo, ed eclettico: lei, Cochi e Renato, Gaber, si fa fatica a immaginare un gruppo tanto eterogeneo. Ma lui ne era il centro di gravità permanente. Uno dei suoi tanti miracoli?

È quello che manca alla nostra epoca, non solo artistica: l’aggregazione di clan, di tribù pronte anche a scendere in polemica, persino in rissa con altri che non hanno fatto scelte stilistiche e sociali simili alle loro. Queste battaglie artistiche, e non solo, erano una naturale assemblea democratica, fertile e sì, anche abbastanza violenta.

Enzo Jannacci, il genio

Enzo Jannacci, il genio

Violenta? Questa ce la deve spiegare

Enzo nella vita poteva essere dolcissimo, generoso ed affettuoso, ma poteva tirare fuori anche un animo violento. Nella mia Jannaceide, come a volte chiamo lo spettacolo in cui lo e ci racconto, non ho mai raccontato l’aneddoto che confesso adesso: una volta usciamo da un locale e un dobermann ringhia con tutta la dentatura in esposizione, ferocissimo, in mezzo alla strada. Lui si avvicina, calmo, prende il muso di quel bestione tra le mani e con un tono che non dimenticherò mai, e neanche il cane, gli dice “se non ti sposti ti succhio il cervello dall’orecchio”.

A Dario Fo hanno dato il Nobel. Di Jannacci si parla poco. Eppure avrebbero dovuto darlo anche a lui.

Ma certo che poteva vincere il Nobel. Questo film è una testimonianza importante sul valore di Enzo Jannacci, su uno che è diventato un genio solo post mortem secondo molti di quelli che prima invece dicevano “fa casino, è troppo imprevedibile, è troppo fuori dagli schemi, è inaffidabile”. Adesso è morto, non disturba più, e può essere celebrato. Perché lui disturbava eccome.

Poi aggiungi pure che la c0micità è drammaticamente scaduta, siamo passati dal Derby a diverse piazze televisive che l’hanno appiattita e banalizzata e ti ricordi quando alcuni di cui ci siamo dimenticati gli davano addirittura del vecchio quando provò a dire la sua su questa decadenza. Aveva capito tutto, era sempre più avanti di tutti, come dice Nino Frassica nel film: lui era avanti pure con quello che ha detto decenni prima.

Abbiamo un sogno. Un film di finzione con lei a interpretare Jannacci…

Sarei onorato, ma non potrei. Io invece farei L’udienza (uno dei troppo pochi film da attore del Maestro) dal vivo!

Come mai?

È qualcosa di strano, ma credo che il documentario sia l’unica vera risposta ai blockbuster americani fatti di effettacci e algoritmi. Il documentari non è costretto a seguire il personaggio e a inventare metaversi, può guardare la realtà e raccontarla. Ha a che fare con la vita e quindi è reale, è materia viva. Neanche il teatro è più così: ai tempi di Pirandello la vita entrava nel teatro o al massimo il teatro nel teatro. Ora nella società dello spettacolo che stiamo vivendo è il teatro che entra nella vita, ma pesantemente.

Quindi la prossima fatica sarà alla regia di un documentario?

Sì, ma non su qualcosa che è successo, ma su quello che sta succedendo. Parlando dei vivi, non dei morti.