Erano passati quattro anni dalla sua morte quando Sam Rockwell dedicò a Philip Seymour Hoffman l’Oscar vinto per Tre manifesti a Ebbing, Missouri. Poggiata a terra la statuetta per il miglior attore non protagonista, l’interprete di Daly City, California, comincia il suo discorso ricordando la volta che il padre lo prese da scuola fingendo con gli insegnanti di dover andare a trovare la nonna, lasciando intendere l’imminente saluto prima di vederla passare a miglior vita. Ma quando il bambino Sam chiese al genitore cosa le era successo, la risposta fu: “Niente, andiamo al cinema”.
Di seguito Rockwell ringrazia tutti i colleghi della sua categoria, chi Tre manifesti a Ebbing, Missouri lo ha realizzato – regia e sceneggiatura di Martin McDonagh – arrivando all’amore per i colleghi Woody Harrelson e Frances McDormand, fino alla compagna Leslie Bibb, conosciuta sul set di Frost/Nixon – Il duello.
La musica cresce, Sam Rockwell recupera l’Oscar. E prima di andare via, non una, ma ben due volte, alza il riconoscimento e omaggia il suo “old buddy” Hoffman.
Il faro di Hollywood e dintorni
Ma si sa, il tempo dei ringraziamenti degli Oscar vale un battito di ciglia, e nonostante Rockwell lo avesse riempito riuscendo a inserire più aneddoti e persone possibili, aveva paura che quell’ultimo, emozionato riconoscimento fosse stato coperto dal crescere della colonna sonora. “L’avete sentito? Oh bene, bene, pensavo si fosse perso nella musica”.
Sarà così che comincerà a rispondere quando, durante la conferenza post-statuetta, si incontrerà con i giornalisti, che chiederanno subito della dedica a un attore che, morto nel 2014, aveva lasciato una voragine nell’olimpo hollywoodiano (e autoriale). “Volete che inizi a piangere?” chiede un Sam Rockwell evidentemente commosso.
“Eravamo molto vicini. Era un’ispirazione per me e tutti i miei coetanei: Jeffrey Wright, Billy Crudup, Mark Ruffalo. Per chiunque abbia la mia età, Phil Hoffman era l’uomo giusto. Era un buon amico”.
Morto a 47 anni, Philip Seymour Hoffman l’Oscar lo aveva vinto nel 2006, quando di anni ne aveva 39. L’interpretazione era di Truman Capote, nell’A sangue freddo di Bennett Miller, e quella volta a essere ringraziata fu la sua mamma, che ha cresciuto da sola quattro figli e gli ha trasmesso le sue passioni: “Che, poi, sono diventate le mie”.
Il debutto avvenne nel 1991, sia al cinema che in televisione: Triple Bogey on a Par Five Hole, giallo comico indipendente di Amos Poe da una parte, la quattordicesima puntata della prima stagione di Law & Order dall’altra. Poi la collaborazione con Paul Thomas Anderson, le altre tre nomination agli Oscar, la morte per un’intossicazione da droghe, nelle quali era ricaduto nel 2012 dopo anni di astinenza. Nel mezzo: un’intera carriera. Il servile Brandt de Il grande Lebowski per i fratelli Coen, il professore che viene tentato, incoraggiato e alla fine biasimato ne La 25ª ora di Spike Lee, anche il cinema commerciale, che lo voleva villain in Mission: Impossibile III e duca in I Love Radio Rock.
Un faro. Per spettatori e colleghi.
“Mi ha diretto in uno spettacolo off-Broadway al Public (The Last Days of Judas Iscariot)”, aveva già raccontato in altre interviste Rockwell prima della serata che, invece di celebrare il suo di talento, diventò il ricordo di uno dei più importanti interpreti della loro generazione. “Era un grande regista teatrale – cosa che probabilmente non tutti sanno, visto anche il meno conosciuto Jack Goes Boating, unico film diretto (e interpretato) nel 2010 da Hoffman per il grande schermo – E lo era perché era un grande attore. Sapeva come parlare, sapeva come camminare. Era un uomo forte, emotivo, un vero mentore, anche se abbiamo la stessa età”.
L’eredità di Philip Seymour Hoffman
Era proprio a teatro che Rockwell e Hoffman ebbero modo di legare, insieme al collega/amico Crudup. Tre degli attori della compagnia off-Broadway LAByrinth, co-fondata nel 1992 dall’attore di Onora il padre e la madre assieme a John Ortiz, il giovane cugino Guajiro di Al Pacino nel thriller di Brian De Palma Carlito’s Way. L’ultima nomination agli Oscar arriva l’anno prima del saluto finale per The Masters del sempre fedele Anderson, a cui è come se anni dopo Hoffman avesse affidato il primogenito.
Nel 2021 il primo di tre figli, avuti dall’ex compagna costumista Mimi O’Donnell, debutta al cinema in Licorice Pizza. Cooper Alexander Hoffman ha diciotto anni, un’affinità evidente con l’obiettivo e un qualcosa nella fisionomia che ricorda il padre. Di sicuro, almeno per il suo debutto, ne riverbera il talento.
Ed è come se si attivasse quella sineddoche di cui parlava Charlie Kaufman nel suo esordio alla regia Synecdoche, New York del 2008 – interpretazione per cui Philip Seymour Hoffman non venne candidato, preferendogli l’Academy il suo Padre Brendan Flynn ne Il dubbio dello stesso anno.
La ripetizione. In questo caso, l’eredità. Di un padre che ha instillato nel figlio la sua vocazione (così come aveva fatto sua madre con ciò che amava). E di un attore la cui grandezza è continuata a crescere, sia in un pubblico che faticherà a scordarlo, che nel profondo di chi da vicino lo ha visto, conosciuto e ammirato.
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