Mads Mikkelsen ha il potere di non deluderti mai, è un intrattenitore nato, prima di essere un grande attore pieno di carisma, basta vedere il recente Bastarden, diretto da Nikolaj Arcel, in concorso all’ultima Mostra di Venezia. Un tuffo nel passato, nel 1755, e nell’ennesima scommessa a trasformarsi. Ma lo si vede in particolare durante le Masterclass aperte al pubblico, nelle quali non si nasconde, dà consigli, risposte, svela curiosità.
È il suo modo di relazionarsi al pubblico e mostrare di sé più sfumature riguardo la sua personalità, pensando ad una carriera partita da Pusher di Nicholas Winding Refn, e che oggi lo proietta tra i volti ormai più riconoscibili del cinema. Lo abbiamo incontriamo all’ultimo Marrakech Film Festival, dove è stato premiato da Willem Dafoe nell’apertura. E alla fine dell’intervista, quando chiediamo all’attore danese di Casino Royale, Rogue One, Animali fantastici e del nuovo Indiana Jones cosa si aspetta dal futuro, non ha dubbi “beh, che mi chiami a giocare il Barcellona”.
Lei e Willem Dafoe navigate da tempo, sia a Hollywood, nei grandi film cinematografici, sia in progetti indipendenti in Europa. Ci sono pro e dei contro in termini di scelte?
Siamo super privilegiati. Giusto? Voglio dire, ci vengono proposte cose differenti, e questa cosa può passare da personaggi folli, grotteschi, malvagi, dolci, surreali, geniali, da Grindelwald a Van Gogh, e francamente mi piace credere che le persone mi vedano con occhi diversi. Io provengo da un background di teatro sperimentale estremo, ma anche dal mondo della danza, il che, in una certa misura, va in una direzione di improvvisazione, trasversalità. Penso che entrambi abbiamo ancora voglia di provare sensazioni ed esperienze differenti. Personalmente vado dove c’è l’offerta più interessante, ma l’Europa è casa mia, è la mia lingua, sono le mie storie, e quando posso torno a casa.
Danza ancora qualche volta?
Non più, purtroppo.
Alicia Vikander aveva cominciato a ballare a Göteborg, alla Royal Swedish Ballet School. C’è passato anche lei in quella scuola se non sbaglio?
Per un anno, sì, poi ho mollato, non volevo stare per così tanto tempo, volevo solo ballare. Da lì sono entrato direttamente in un gruppo di balletto e ho iniziato, nemmeno ero il più giovane, avevo 20 anni credo. Poi ho avuto comunque un percorso da come ginnasta, c’erano alcune cose che potevo fare e molte altre no, ho dovuto come dire adattarmi, accettare le situazioni, ma ho imparato di più facendo sul campo, andando successivamente da Martha Graham, e assimilando tanta formazione nella sua compagnia.
Mads Mikkelsen e le donne: che posto occupano nel suo mondo?
Direi enorme, ma nella vita molto di più (ride, ndr). Mia moglie e le mie figlie, ovviamente, sono donne cruciali, ma lo stesso vale per gli uomini, ho anche un figlio. Forse non guardo tanto i film europei, ma tornando a Hollywood, lì vedo tante storie al femminile, attrici fantastiche, di generazioni diverse, a quaranta, cinquanta e sessanta, ma anche tanti talenti che rimangono fuori, seduti ad aspettare un ruolo o un copione, è davvero frustante assistere a tutto questo.
Per lei com’è stato invece il processo creativo d’attore?
Rapido, come nel ballo. Cercavo sfide, ed è arrivato il teatro, non c’ero mai stato, non avevo visto nulla, e d’improvviso mi sono ritrovato su di un palco a recitare, era tutto così magico e incredibile nello stesso momento, una combinazione di immaginazione e fisicità. Me ne sono innamorato quanto la danza, e di come l’essere attore ti porti a ricercare te stesso. Il processo, in sé, varia, succede alla maggior parte degli attori, ci sono quelli che seguono delle tecniche e metodi consolidati, tipo lo Stanislavskij, altri no. Io ho avuto insegnanti diversi, apprendendo da ognuno, forse il primo approccio importante parte dalla sceneggiatura: voglio comprendere la storia che leggo e si ha davanti, cerco di renderla più forte, brutale, intensa, qualunque elemento serva. E se mi vengono delle idee, ne parlo col regista, ho bisogno di emozionarmi. Dipende anche dalla nostra personalità e sensibilità, che in una certa misura provo a controllare. Alla fine, sono sempre io, non mi trasformo mai nel personaggio, non voglio che i miei figli mi chiamino con un altro nome.
A volte affronta ruoli difficili, a volte li umanizza, esplorandone le vulnerabilità. Cosa le piace realmente?
Il fatto che siamo pieni di zone grigie e prospettive diverse, e cambiamo idea, ma anche solo perché è più interessante. Uno dei motivi per cui amo da sempre Taxi Driver e Robert De Niro, è perché Travis non è un personaggio simpatico, eppure c’è qualcosa in lui che mi conquista. Rivedo la pellicola ed è un viaggio da fare con lui, ed io sono curioso di intraprenderlo ogni volta. Penso che sia il modo molto migliore di raccontare anche le nostre di storie.
Da attori dobbiamo capire l’universo che per qualche mese abitiamo. Quando ho girato la scena della tortura in 007 – Casinò Royale con Daniel Craig, ci siamo fatti una passeggiata prima insieme, ne abbiamo parlato, e alla fine il regista aveva ragione, perché anche nella crudezza di quel momento dovevamo essere onesti, e il pubblico lo capisce se non lo sei.
Cosa le piaceva guardare da ragazzo?
I film di Indiana Jones, ne ero un fan, e ora che ci sono finito anche io, è incredibile a rivedermici dentro. Harrison Ford, per la mia generazione, continua ad essere una fonte di ispirazione, è come un profeta, una leggenda vivente, divertente, piena di eleganza, energia. Arriva sul set, e in un attimo diventa subito un ragazzino. E poi chiaramente quelli di Scorsese, di e con Charlie Chaplin, Buster Keaton, Bruce Lee.
Finiamo con Thomas Vinterberg: un amico, oltreché un regista. Cosa vi lega?
Abbiamo molto in comune, è uno dei pochi che frequento privatamente: è un uomo adorabile, intelligente, guarda sempre oltre, e sa ciò che vuole. Non è un nerd, sia chiaro, ma a volte dobbiamo trascinarlo fuori a bere (scherza, ndr). Crea storie su cose semplici della vita, che poi diventano molto riconoscibili, umane, adoro il modo in cui lavora.
L’epilogo di Un altro giro, e quella canzone, “What a life”, sembra diventata un po’ il suo inno, non crede?
Sì, è ovunque, continua a circolare nell’aria, è bello. Mi viene da ridere se ripenso a quel giovane che canta la canzone, l’ho sbattuto da casa mia almeno tre volte super ubriaco, era amico delle mie figlie, ma io non sapevo che fosse lui!
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