Il sol dell’avvenire di Nanni Moretti ha qualcosa che me lo renderà sempre caro. Ha la stessa età di The Hollywood Reporter Roma: sono nati insieme e lo hanno fatto facendosi compagnia. Hanno viaggiato parallele l’avventura editoriale più importante della mia vita e l’ultimo film del regista (anzi il primo della nuova carriera) che più ho amato (e amo) e mi ha formato, e che ho avuto la sventura di recensire nel periodo in cui non capivo i suoi film, o loro non capivano me. Ancora non so quale fosse il problema se non, lo dico con pudore, la necessità in una certa parte della vita di abbattere i propri idoli, proprio perché ingombranti e perché in fondo se vuoi fare qualcosa, devi anche combattere le guerre impari e rischiare di essere solo una pulce che aveva la tosse (sì Nanni lo ero, a proposito scusa per quel pezzo su Liberazione in cui ho usato il monologo al telefono “mi si nota di più” di Ecce Bombo per commentare le tue dimissioni da Torino).
Leggo e rileggo i tanti pezzi usciti in questo mese sull’ultimo film di Nanni Moretti e qualcosa continua a stonarmi. Poi è rileggendo queste prime righe che mi rendo conto che non si può parlare di quest’opera senza ingaggiare emotivamente se stessi, senza usare la prima persona singolare e dopo un po’ quella plurale. La schiettezza intellettuale e cinematografica – molto ben racchiusa in quel finale che diverrà un quadro a sé nella cinematografia morettiana – con cui il suo Giovanni, non più Michele Apicella, si mette in discussione e benevolmente si espone in tutte le sue delicatezze (non fragilità, sia inteso) è un qualcosa che puoi e devi affrontare con la stessa onestà. Dino Risi consigliava a lui di spostarsi per poter vedere il film, noi dobbiamo entrarci invece, per sentirlo addosso. E mai come questa volta Nanni al centro della sua opera ci sta benissimo.
Ma non siamo capaci e tantomeno intenzionati a metterci in discussione. Ci si è nascosti in un’iniziale plebiscito per il film, un po’ inquieto, che come sempre ha lasciato strada, presto, ai dissidenti arguti, spesso provenienti dall’area da cui meno te lo potevi aspettare, un fuoco amico fastidioso e velleitario.
Che poi chi è amico di Nanni Moretti? Il centrosinistra di cui è stato sprone nel fianco e spesso impietoso giudice? Il cinema cosiddetto radical chic che per imitarlo è diventato grottesco, non capendone la radice profondamente pop e popolare, colta ma mai erudita, rivolta al pubblico e non agli addetti ai lavori se non per dissacrarli? Oppure un’intellighenzia che non ne ha mai intuito davvero la lezione iconoclasta?
Non starò a ricordare Arbasino che guarda sornione lui e Monicelli duellare in tv nell’ultimo sano confronto generazional-culturale di questo paese, in cui i due si ostinano a non capirsi, perché farlo porterebbe a un compromesso molto meno fertile del loro scontro. Uccidere i padri, dopo averne appreso la lezione e averla fatta diventare propria, strumento di crescita e ribellione, così come non spalancare la strada ai figli, per fortificarli, offrendo la propria legacy (sì, schiaffeggiami, sarò la tua Mariella Valentini). Non lo ricorderò perché il coccodrillo di Mario, un amico inaspettato e meraviglioso per me, lo scrissi, per quei destini assurdi, al Nuovo Sacher, con Ermanno che mi cedette il computer della postazione biglietti. E non ho voglia di piangere, come mi è capitato apparentemente senza motivo con il circo Budavari, perché per me Palombella Rossa con La messa è finita, è Nanni Moretti e tutto quello che mi ha insegnato e avrei voluto pensare, dire e scrivere.
Il sol dell’avvenire è probabile che parli solo ad alcuni, ma il confine non è generazionale, sociale o di classe, ma tra chi ha sposato un’aridità che ben si attaglia a tempi attuali schiacciati su una vacuità a volte elegante e a volte cafona (non dei giovani, incompresi ma pieni di idee fertili, ma di una seconda e terza età intellettuale cinica e barona) e chi, magari di nascosto, ancora coltiva l’utopia, il sogno o solo la voglia di essere comunità. E guarda a Nanni, quasi sempre profetico, con gioia perché un’opera più piena di onestà ma anche di speranza non poteva farla. “Perché due o tre principi bisogna pur averli”.
Come si fa, mi sono chiesto in queste settimane, a provare quasi rancore per Il sol dell’avvenire, che senso hanno avuto certe stroncature? Poi ho capito.
Nanni Moretti sapeva di non essere uno splendido quarantenne – molto migliore di tanti sì, ma non splendido – quando lo urlò. Voleva esserlo, voleva un paese in cui fosse possibile, odiava quel marciume invecchiato che con giovanile e irredenta veemenza pretendeva per sé. Ma diamine se non è uno splendido settantenne. L’ho capito oggi, a Cannes, all’Italian Pavillon, in cui ha tenuto banco, come spesso gli accade, con i tempi – che sul set a volte sembra aver perso – dello stand-up comedian consumato (lo so Nanni, le parole sono importanti, ma al prossimo film troverai tu la definizione giusta), raccontandosi con la lucida autoironia dei tempi migliori, in una conferenza stampa amarcord e sitcom in cui ha raccontato, in modo esilarante, come e quanto abbia vessato il produttore Domenico Procacci per un finale che a un certo punto stava per superare, per difficoltà e presenze, l’inizio del mai girato Leningrado di Sergio Leone.
Lo chiedo proprio a Procacci. Abbiamo un disperato bisogno di una serie tv: Vita da Nanni.
Tornando al punto, Moretti, ma anche Almodovar e Bellocchio e pochi altri, invecchiano benissimo, ritrovandosi e rilanciandosi, con vitalità rinnovata, mentre la società e in particolare quella che si crede la loro bolla di riferimento, scoppia malinconica e inadeguata, scoprendosi inutile e fallita. E senza neanche la capacità di guardarsi, di ammettere, come fa il regista, invece, l’indignazione ma anche il dolore per un tempo che non riconosce e in cui non si riconosce. Con divertita tenerezza, ride di sé e noi non sopportiamo che, facendolo, rida di noi.
Ecco perché oggi, in questa mini conferenza stampa che è un rituale stantio di tutti noi che siamo invecchiati male, lui ha deciso di essere conduttore, narratore, protagonista, affettuosa spalla (per pochi secondi) e memoria storica. Perché in un mondo in cui ci si sente tutti immortali e necessari, lui si permette il lusso di esporre la propria fragilità osando, così, scoprire anche la nostra. Proprio lui, che immortale e necessario lo è.
A 10 anni non sapevo perché ma lo amavo, con l’entusiasmo e l’assolutezza del bimbo. A 20 lo idolatravo con l’ostinazione furente di chi ne vedeva ben più di un cineasta. A 30 lo contestavo, con infantile irrequietezza. A 40 ho provato a capirlo davvero. Ora, oggi, vorrei uscirci a cena. Perché Il sol dell’avvenire ci dice che a invecchiare male sono state almeno tre generazioni. E uno dei motivi è che Nanni Moretti, davvero, non l’hanno mica mai capito.
Sai che c’è, Caro Diario? La sua dannazione è che lui ha capito noi sin troppo bene.
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