Ruben Östlund, due volte Palma d’Oro a Cannes e quest’anno Presidente di Giuria al Festival diretto da Thierry Fremaux, di fronte al microcosmo umano, effimero, composto dai passeggeri di uno stesso aereo, ha iniziato ad appuntare le prime idee del nuovo film. Qualche anno fa, in moto perpetuo per la promozione di The Square (2017), ancora quel capolavoro chiamato Triangle of Sadness non aveva preso forma e già si trovava a osservare cosa succedeva nell’intervallo temporale di volo o, poco prima del decollo, nell’attesa; il modo compulsivo con cui i passeggeri guardando partenze/arrivi muovevano le dita compulsivamente o per noia sugli schermi dei loro smartphone. Così, dall’ipotesi di un collasso del loop online, da un’associazione di idee e dal cono deformante dell’umorismo attraverso cui Östlund osserva la fetta di umanità che ama ritrarre, capovolgere, prende forma il nuovo progetto, The Entertainment System is Down. Abbiamo incontrato per un’intervista (e un’anticipazione) Ruben Östlund, a Bologna in occasione del festival Il Cinema Ritrovato e della masterclass di IFA – International Filmmaking Academy.
Sta lavorando a un film sulla tech addiction. Cosa le interessa indagare?
Penso che non sia possibile capire in che modo il flusso costante di immagini ci abbia influenzato. Con la mia società di produzione, la Plattform Produktion, ho parlato per anni delle possibilità della macchina da presa, o meglio delle possibilità dell’immagine in movimento. È una specie molto più efficiente dell’essere umano. C’è qualcosa che mi attirava nel loop che attira la nostra attenzione in modo magnetico. E quando si vede ciò che l’algoritmo e i colossi del tech sono riusciti a creare quando si tratta di mantenere fisso il nostro sguardo, comprendiamo ancora meglio quanto lo smartphone sia uno strumento molto potente. Poi, ora che ho un figlio di un anno e nove mesi, posso dire che se gli lasciamo il telefono per quindici minuti, sarà di cattivo umore per due ore.
Quali sono state le prime fasi del progetto?
Tutto è iniziato con il titolo, The Entertainment System Is Down. Si intuisce già che sarà qualcosa di divertente, con una vena critica. Avevo poi un pensiero ricorrente, trovarsi su un volo in cui tutto ciò che ci intrattiene online non funziona più. L’idea mi è venuta quando ero in viaggio per la promozione di The Square, così ho iniziato a documentarmi sulle compagnie aeree. Le compagnie aeree sono molto interessanti. Allo stesso modo un aereo è un luogo interessante in cui ambientare un film, perché è come una micro-società.
Si è ispirato a un esperimento di sociologia?
Cerco sempre di iniziare da esperimenti sociologici o psicologici per ideare le basi di un nuovo progetto. Uno di questi è molto interessante, The Challenge of the Disengaged Mind: la sfida era chiedere a un gruppo di persone di entrare in una stanza e non fare nulla per un tempo compreso tra i 6 e i 15 minuti. Non sembra una cosa difficile ma si è scoperto che la gente pensa che sia una tortura stare seduti su una sedia, in balia dei propri pensieri senza potersi distrarre. Così é stata aggiunta una funzione, la possibilità di premere un pulsante e darsi una scossa elettrica. Molto dolorosa, ma non dannosa. Il risultato? Due terzi degli uomini e un quarto delle donne hanno premuto il pulsante. E una persona ha premuto il pulsante ben 190 volte. Si è dato 190 scosse.
Sembra un paradosso, non riuscire a rimanere fermi al punto da perdere il controllo del proprio corpo. Accade anche in altri suoi film, il corpo è filtrato dal paradosso, dal grottesco. Come ha costruito una grammatica visiva in questo senso? Da dove proviene la sua ricerca?
Non solo il cinema ma anche il fumetto ha avuto una grande influenza su di me. Mad, per esempio, ha segnato la mia infanzia per via di un certo approccio satirico alle cose, a tratti politico. E poi mia madre amava le Candid Camera, pensava che fosse interessante osservare come le persone si comportavano in una situazione inattesa. Per lei guardare Candid Camera era quasi come assistere ad un esperimento comportamentale o sociologico.
A proposito sua madre collezionava testi di sociologia e politica in libreria, testi che lei leggeva durante la sua formazione
Era un’insegnante. Credo si intraveda un approccio quasi pedagogico nei miei film. Entrambi i miei genitori erano insegnanti, certamente questa formazione mi ha influenzato molto. Poi è vero, mia madre quando si parla di politica si accende, è una delle poche a considerarsi comunista ancora oggi. Lo è diventata a partire dai movimenti degli anni ’60, mentre mio fratello è più liberale, di destra. A casa mia si parlava costantemente di politica, ogni domenica a cena, spesso durante accesi dibattiti. C’erano segni tangibili del passaggio della politica e della storia in casa. E Marx è stato anche uno dei fondatori della sociologia. Credo che sia stata mia madre a farmi conoscere i grandi esempi di studi sociologici.
Se la critica al sistema capitalistico è una delle chiavi di lettura del suo cinema, c’è anche una parte che sfugge a ogni tipo di catalogazione, legata al potere, filtrato da chi lo detiene anche solo per un attimo, soprattutto per un attimo
Vero. Quando Abigail in Triangle of Sadness assume una posizione di potere, inizia ad abusare del suo potere. Il mio cinema fotografa le gerarchie, e queste sono alcune delle componenti fondamentali dell’essere umano. Dal momento che siamo animali da branco, cerchiamo costantemente di vedere a che punto siamo della scala sociale, ci chiediamo chi è questa persona rispetto a me, e così via. Quando stavo scrivendo la sceneggiatura di Triangle of Sadness e mi è venuta l’idea che i protagonisti fossero in mezzo a una tempesta e tutti soffrissero il mal di mare. Ho fatto sport quando ero più giovane, conosco bene le dinamiche della competizione.
Il suo cinema ha anche a che vedere con la performance grottesca contemporanea. Che cosa le interessa dell’online culture e dell’influencer culture?
Se guardiamo alle performance online, se pensiamo al settore food per esempio, è come se fossero in mano a personalità ai limiti. Se si vuole andare avanti, è quasi come se più estremo è il contenuto che si sta distribuendo, più attenzione si otterrà. In questa competizione per l’attenzione, le performance che paiono vincenti sono quelle che fanno emergere il lato più estremo di noi stessi.
Dell’arte ha detto che spesso la creatività è scissa dal mercato. E nell’industria cinematografica?
Penso che la situazione stia peggiorando sempre di più. Quando ho iniziato a fare film, praticamente nessuno aveva un agente. Ora, 20 anni dopo, tutti hanno un agente. L’economia si è infilata in ogni piccola parte del business e questo settore ne sta soffrendo, almeno questo è il mio parere.
E’ stato Presidente della Giuria di Cannes quest’anno, come ha percepito l’atteggiamento dei registi italiani nei suoi confronti?
Non mi sono mai sentito respinto dai registi italiani. Quando sei in Giuria, non dovresti incontrarli. Dovresti essere esente da interazioni. Gli anni precedenti ho conosciuto Paolo Sorrentino. Amo La Grande Bellezza e É stata la mano di Dio.
Un’ultima curiosità, che rapporto ha con il regista finlandese Aki Kaurismäki? Lo ha mai incontrato?
L’ho incontrato in occasione del Midnight Sun Film Festival. Abbiamo linguaggi molto diversi, non esiste competizione. Penso che i suoi film siano geniali. Per esempio, l’ultimo fa emergere esattamente un certo tipo di drammaturgia che segue il modo in cui noi esseri umani ci innamoriamo. E lui punta il dito su quella drammaturgia quasi lasciasse trapelare quanto sia dolce ma sollevasse un interrogativo: non è stupido quanto ci lasciamo sedurre così facilmente?
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