Sergio Castellitto oggi compie 70 anni. È l’attore e regista più camaleontico e premiato del nostro cinema. L’ultimo, il Premio Pietro Bianchi, riconoscimento assegnato dai Giornalisti Cinematografici Italiani, gli verrà consegnato il 6 settembre alla Mostra del Cinema di Venezia, alla quale parteciperà in concorso con Enea, il secondo film da regista del figlio Pietro. Il giorno dopo, il 7 settembre, uscirà nelle sale Il più bel secolo della mia vita di Alessandro Bardani dove interpreta il centenario mentore del comico Valerio Lundini.
Il sogno di farsi scritturare in un film diretto da Castellitto Jr. possiamo considerarlo il regalo di compleanno del primogenito, mentre la torta al cioccolato di cui è tanto goloso sarà il dono home made della moglie, la scrittrice di successo e partner in crime Margaret Mazzantini. Quello del pubblico è arrivato in anticipo, premiando i primi di agosto l’ennesima replica della fiction su Padre Pio di Canale 5 con ascolti record, mentre, contemporaneamente, Rai due trasmetteva il film di Gianni Amelio La stella che non c’è di cui è protagonista l’attore con il naso importante.
È principe degli sceneggiati che hanno avuto il merito di avvicinare il grande pubblico a molti personaggi della storia, della cultura e dell’eccellenza italiana nel mondo: da Enzo Ferrari a Don Milani, dal Generale Dalla Chiesa a Rocco Chinnici, da Aldo Moro ad Angelo Vassallo fino a Fausto Coppi. Nonché allievo di molti i maestri del cinema italiano, che lo hanno scelto per la versatilità e la naturale propensione alla recitazione: Ettore Scola, Marco Ferreri, Marco Bellocchio, Mario Monicelli, il citato Amelio.
Come celebrerà questo traguardo importante?
Con i miei figli, con Margaret, con alcuni amici. Pochissimi. Il modo migliore per passare la giornata.
Ci saranno tutti i suoi quattro figli?
Sì. Sono piuttosto devoti, nel senso buono del termine, ma senza essere servili. Pietro è l’unico che ancora non è qui, ma verrà in giornata.
Si starà preparando per Venezia. Gli ha dato dei consigli?
Cerchiamo di darceli a vicenda tra genitori e figli, ma in maniera casuale. Non siamo mai state persone che dicono: “Adesso ti faccio il discorso!”. Tutto viene mischiato durante una cena, delle chiacchiere, mangiando un gelato e così via. Abbiamo sempre mescolato l’immaginazione, l’arte, la fantasia, tutti strumenti che abbiamo avuto il privilegio di utilizzare insieme nella quotidianità.
Niente sermoni in casa Castellitto?
Non abbiamo mai fatto sermoni. I nostri figli sono cresciuti, da questo punto di vista, in maniera molto essenziale. Siamo stati aiutati dal sentimento dell’amore che oggi, detta così, sembra una banalità, invece è l’unica cosa concreta che esiste. Un legame forte, profondo, che non ha bisogno di spiegazioni. La nostra è una famiglia molto laica, ma anche molto sentimentale.
Ha una famiglia creativamente potente. Fortuna?
Penso che l’amore è una fortuna, perché si basa sulla possibilità di un incontro. Poi quell’incontro te lo devi meritare. L’amore in questo senso è un lavoro, non è una cosa che puoi fare part time. È fatto di profonda armonia, ma anche di conflitti, tensioni e così via. Portare tutto questo insieme per una vita. Sono più di 35 anni che ci conosciamo con Margaret.
Abbiamo popolato la nostra vita di diversi figli. Sono le nostre nature che si sono mischiate. Uso un’altra parola che considero rivoluzionaria, ma che è sempre suscettibile di irrisione. Siamo una famiglia di persone buone. Che non è poco in questa spietatezza quotidiana, questa ironia che spesso nasconde un limite della fantasia.
In un suo film sosteneva come i figli a volte siano meglio dei genitori. Vale anche per la sua di famiglia?
Si, questo succede spesso. Certe volte con Pietro ci siamo detti che se noi, in una paradossale e immaginaria scena ci incontrassimo tutti e due a trent’anni, davanti ad una birra, forse non ci capiremmo. Forse non diventeremmo amici. Proprio perché proveniamo da esperienze umane, anche sociali, profondamente diverse. È penso che sia questa diversità che ha nutrito un’affettuosa curiosità l’uno verso l’altro. Io verso i miei figli e i miei figli verso di me.
Oggi è di moda dire che un genitore è amico del figlio.
L’amicizia paterna è un’altra delle ambiguità ideologiche. Il padre deve fare il padre, il figlio deve fare il figlio. Poi i miei figli mi prendono molto in giro. Ed è, secondo me, una delle forme dell’ammirazione, prendere in giro qualcuno.
Perché la prendono in giro?
Sono un po’ rompipalle. Faccio il padre. E quindi loro danno retta, ma nello stesso tempo sanno prendere le distanze. Per fortuna, dico io, perché quei figli che seguono con ambiguo rispetto i dettami dei genitori, io non li capisco.
Nessuna fisiologica ribellione, quindi?
I figli devono in qualche modo rivoltarsi, nel senso positivo della parola, verso i propri genitori. E poi gli anni, l’età, la vita, ti insegna a trovare un equilibrio. Noi gli abbiamo dato un’indipendenza dell’immaginazione, della creatività, tutte queste fesserie qua insomma. Allo stesso tempo conosciamo benissimo il peso che noi abbiamo. Dico sempre che i consigli ai figli si devono dare senza testimoni, perché è più facile poi che li seguano.
Pensa che la nostra società sia in crisi?
Io credo che la crisi, in qualche misura, sia il fondamento per capirci qualcosa e, per questo, creare qualcosa. Per esempio sono 40 anni che faccio questo mestiere e che sento parlare di crisi del cinema. La crisi è un motore, una benzina fondamentale, soprattutto per un artista. C’era un grande filosofo del Settecento che diceva che un giardino finito è un giardino morto. Il mio lavoro non va mai considerato finito.
Allora come lo affronta?
Devi sempre avere un atteggiamento inadeguato verso quello che fai. Un grande regista con il quale lavorai in teatro tanti anni fa ci diceva sempre: “Fatevi venire una seconda idea, che la prima è già venuta a qualcun altro”. E io ho seguito questa cosa alla lettera, a volte riuscendoci, a volte no, però ho sempre cercato di farmi venire una seconda idea.
A 70 anni è pentito della sua appartenenza politica o di un voto dato?
Mai! Anche perché politicamente sono sempre stato libero. Sostanzialmente sono stato radicale. L’unica appartenenza. Non in questi anni naturalmente, dove il partito radicale non ha più la forza e la potenza che ha avuto negli anni di Pannella. L’unico legame sentimentale con la politica ce l’ho avuto attraverso l’esperienza dei radicali. Non sono mai stato appartenente a nessuna zona o a nessun salotto, a seconda dei punti di vista. Ed è una cosa che mi fa molto piacere, nel senso che oggi mi godo questa libertà.
Non frequentare certi salotti l’ha in qualche modo penalizzata?
Ogni artista ha, nel migliore dei casi, una valigia di soddisfazione, ma ha anche una valigia di rimpianti. Ognuno di noi ce l’ha, di rimostranze, di un sentimento che in qualche modo è legato a qualcosa che tu ritieni non ti sia stato dato. Fa parte del gioco.
Non ha risposto alla domanda.
Le rispondo con molta sincerità, io questi rimpianti non ce l’ho. Ho sempre pensato che per quello che ho ottenuto o che non sono riuscito a ottenere, alla fine dei conti , devo ringraziare o prendermela sempre e solo con me stesso.
Ancora non ci siamo…
Sicuramente il mio atteggiamento di non appartenenza generale mi ha permesso di dire anche delle cose che ad alcuni possono essere apparse scomode oppure fuori dalla velina culturale predominante. Però insomma non si arriva alla mia età con questa rabbia qui, perché allora vuol dire che non hai combinato niente di concreto. Preferisco la valigia delle soddisfazioni, come dicevo, quella dei rimpianti la butto nel secchio.
Pensa di poter parlare, arrivato a settant’anni, di una seconda giovinezza?
Devo dire che sento di avere oggettivamente una grande energia e di questo devo essere grato proprio ai miei figli. A parte naturalmente Margaret. Parlare di lei per me significa parlarne in termini talmente profondi che è meglio non parlarne.
Più che amore sembra adorazione quella che prova verso sua moglie.
Tutta la mia esperienza cinematografica di regista l’ho fatta perché Margaret ha scritto i libri. Io non sarei mai riuscito a portare avanti un progetto come quello di Non ti muovere o di Nessuno si salva da solo o di qualsiasi film che io abbia fatto come regista, senza la presenza in tutti i sensi di Margaret. Per cui i miei film sono anche i suoi. Come si chiama quella cosa che si fa quando ci si sposa, separazione dei beni? Ecco tra di noi non c’è separazione, c’è proprio totale comunione dei beni e della creatività.
E i figli che ruolo hanno?
L’energia che ho adesso la devo a loro. All’osservare la qualità del percorso che hanno fatto, la loro indipendenza nutrita da due presenze importanti, a volte forse anche ingombranti, come me e Margaret. Ma chi è che non ha avuto, da qualche altra parte, un padre o una madre ingombranti? Riconosco il percorso che sta facendo Pietro, ma anche quello che stanno facendo gli altri miei figli. L’ultimo è ancora abbastanza piccolo e per ora si occupa soltanto della curva Sud, il che è ammirevole, è un punto di orgoglio. Come vede mi interessa parlare più della mia vita che della mia professione.
Le tocca parlare anche di quello però.
Le racconto un aneddoto perché è molto significativo. Emmanuel Carrère ha scritto Yoga, un libro che ho letto poco tempo fa, in cui racconta di una intervista che fece a William Hurt, al culmine della sua carriera. Hurt in questa intervista cercava di parlare dell’esistenza, di rapporti umani e così via.
Lo scrittore invece era quasi infastidito da questo sentimento un po’ melò, romantico, dell’attore, che rispondeva dicendo che avrebbe voluto diventare semplicemente una persona migliore. Carrère allora, con l’ironia tipica dei francesi, quella un po’ sprezzante, incalzò Hurt chiedendo come mai fosse così fissato su questa cosa, sul perché era importante per lui diventare una persona migliore. William Hurt, strabuzzando gli occhi azzurri e fissandolo gli disse semplicemente: “Per essere un attore migliore”. Trovo che questa cosa sia straordinaria. Io mi ci riconosco profondamente.
Perché?
Non ho mai scelto un attore soltanto per il suo talento, ma anche per la sua sostanza umana. Per me l’umanità è il fondamento di qualsiasi cosa si faccia. Perché si vede tutto. In un quadro che dipingi, in una musica che componi, in una recitazione che metti in pratica.
Quando ha scelto Penélope Cruz per il suo film ha notato questa umanità?
Assolutamente sì. Le dissi che non cercavo una star, ma un’attrice. Lei umilmente mi disse: “Ti mando una cassetta con registrate delle battute di alcune scene e tu mi dirai se io sono in grado di fare o no il tuo film”. Rimasi colpito da questo gesto di disponibilità totale, di devozione. Cominciò così un’avventura abbastanza irripetibile.
Che ne pensa dell’intelligenza artificiale?
Purtroppo le devo rispondere con una citazione che mi ero ripromesso di non fare. Ho letto da qualche parte che Italo Calvino nel ’67, durante un convegno, affermava che nel giro di qualche anno, non poteva prevedere quando, immaginava la possibilità che venisse fabbricato quello che lui chiamava l’automa letterario, una macchina capace di comporre poesie e redigere romanzi. Evidentemente aveva intuito tutto, ma quello era un genio.
È perché il progresso è ineluttabile?
Mi ricordo molto bene quando anni fa uscì fuori Avid, il nuovo programma di montaggio che sostituì la moviola. Una volta, prima di fare un taglio, ci pensavi dieci volte, perché altrimenti ce ne mettevi altri venti per toglierlo. Col suo arrivo, Avid ti consentiva di tagliare le scene riuscendo ad azzerare i tempi. Molti immaginarono che questa cosa avrebbe cambiato il linguaggio cinematografico. E, invece, nella sostanza non è cambiato molto. Credo che l’intelligenza artificiale vincerà, ma vincerà perché l’intelligenza artificiale non è un’ideologia creativa, è un business, e il business vince sempre.
Vincerà anche sulla creatività?
Sì, ma poi ci sarà sempre bisogno di qualcuno che scriva L’Infinito. E colui che lo scriverà sarà sempre e solo Leopardi, non una macchina. È lì la differenza tra il genio e le macchine, ma anche tra le stesse divinità dell’arte.
Nel suo prossimo film, Il più bel secolo della mia vita, si è portato molto avanti, interpretando un centenario. Come è stato?
Mi sono divertito. È bello lavorare con un regista che nutriva il sogno di fare questo film da tanti anni. Hai a che fare con un uomo con una passione che mette in quello che fa, in certi tratti è quasi studentesca, nel senso più bello della parola. Poi ho avuto un incontro bellissimo con Valerio (Lundini, ndr), che considero un ragazzo dal talento raro.
E dell’interpretazione?
Questo è uno dei lussi dell’attore, no? Mi sono visto alla fine del corridoio. Come sarò? Se mai sarò? Il film è molto ben calibrato perché riesce a diventare una commedia malinconica e divertente senza mai trasformarsi in un film comico.
Si immagina di invecchiare nella realtà come nella pellicola?
Beh, insomma, arrivarci! Soprattutto con quella testa, quell’ironia e la lucidità. Non sarebbe male. Però quando gli anni passano devi fare i conti con questa rabbia che in qualche modo ognuno di noi incontra ogni mattina che si sveglia e con la quale devi fare i conti nella vita.
La rabbia è quella che poi nella vecchiaia si trasforma in amarezza. Ecco, quella è una cosa che odierei e per fortuna non ce l’ho. Le apparirà anche questo sentimentale, ma la vicinanza intorno a me con dei ragazzi mi consente di avere sempre uno sguardo sorridente e luminoso. Anche se i giovani non è che lo siano sempre. Provano anche angoscia, ansia, dolore e quant’altro. Credo di essere un uomo fortunato.
C’è qualcosa che non ha potuto realizzare in questi anni?
No, perché io sono abbastanza contrario ai rimpianti.
Quindi ha avuto la fortuna di fare sempre quello che voleva?
Assolutamente. Ho anche rifiutato tante cose che, per rispetto verso chi le ha fatte, non dirò mai.
Immagino avrà ricevuto anche qualche no nella sua carriera.
È successo rarissimamente e soltanto nei primi anni. E quella volta che hanno scelto un altro al mio posto, ho sempre pensato che l’occasione l’avessero persa loro e non io. Un po’ di alterigia fa bene, no?
Forse un po’ troppa?
(Ride, nrd.) Io sono stato veramente fortunato. Ho lavorato con i maestri, poi con quelli della mia generazione, con i giovani registi. Insomma, ho incontrato tre generazioni nel mio lavoro. Certi film mi hanno concesso di attraversare tre generazioni e quindi di costruire un bagaglio anche di ricordi. Perché i ricordi contano, eh?
A quale dei tanti maestri con cui ha lavorato ha rubato il mestiere?
Io direi da tutti e nessuno. Nel senso che poi non mi sono mai messo lì nella condizione di dire: adesso rubo qualcosa. Ho ascoltato, ho cercato di capire. A volte ho capito e a volte no. Sicuramente nel tuo bagaglio di attore, di regista, ma anche di scrittore, di sceneggiatore, catturi tutto quello che vedi fare. Sia di buono che di sbagliato. Quante volte mi è capitato di imparare qualcosa perché vedevo che quello che stavano facendo altri non era esatto. Naturalmente secondo il mio modo di vedere le cose.
Ci sarà pure qualcuno.
Sicuramente l’amicizia e l’esperienze che ho fatto con Ettore Scola sono rimaste centrali, ma anche lì, soprattutto dal punto di vista umano. Anche Marco Ferreri e tanti altri. Non voglio fare torto a nessuno, alla fine rimane solo la tua esperienza.
Era molto forte il legame con Ettore Scola?
Molto. Io sono stato un suo allievo e alla Mostra di Venezia di quest’anno mi daranno il premio della critica Pietro Bianchi che anche Scola vinse molti anni fa. È divertente, come se ci fossimo passati il testimone. La ruota gira, no? Sicuramente Ettore ha segnato molti avvenimenti della mia vita, ma a rimanere è soprattutto la sua amicizia. È una delle poche persone di cui, se chiudo gli occhi, mi ricordo il timbro della voce. Vuol dire molto.
Qual è il film che le ha dato più soddisfazioni?
Non ti muovere. Sia da attore che da regista. È stata un’esperienza cruciale nella mia vita. Mi ha consentito di scoprire delle qualità che che non sapevo ancora di avere. La capacità di narrare, di inseguire, di tradire e allo stesso tempo di conservare un’opera letteraria, che è un lavoro immane.
Se non ricordo male, mostra anche capacità da amatore, in quel film.
Sì, decisamente. Quando uscivo la mattina con la borsa di lavoro, che mi porto sempre appresso, avevo dentro il copione, qualche penna e un perizoma (ride, ndr.).
C’è un particolare incrocio astrale tra lei e Penélope Cruz: l’attrice sarà protagonista a Venezia del film Ferrari di Michale Mann, mentre lei aveva fatto la serie televisiva di Carlo Carlei. Le ha chiesto dei consigli?
No, non ne abbiamo mai parlato. È un film che avevano cominciato a girare e poi si sono fermati, mi ricordo. Sono molto curioso.
Ancora non si è fatto fregare dai social?
No. E sarei più preciso. Io ho fregato i social. Non ho nessun profilo se non quello del mio autorevolissimo naso.
Nemmeno un po’ di curiosità?
No. E questo è meraviglioso perché posso dire quello che voglio a chiunque in maniera più o meno diretta. Non saprò mai cosa mi scrive quell’odiatore di tastiera piuttosto che quell’altro.
Nemmeno una sbirciatina ai profili dei figli?
Per vedere cosa fanno dovrei aprire un profilo perché loro non mi consentono di guardare i loro telefonini. Io non ho codici, guai a toccare un loro telefono.
Resisterà ancora al richiamo?
Assolutamente sì. Guardi che si vive benissimo. Mi godo questa invisibilità. Ogni tanto faccio una bella intervista come quella che sto facendo con lei, dico quello che penso, gliene canto quattro e poi ritorno in questo meraviglioso silenzio. Comincio a girare un film, poi ne giro un altro, poi scribacchio qualcosa.
Pochi giorni fa è stato trasmesso di nuovo da Canale 5 il suo Padre Pio, che è di nuovo risultato il programma più visto della serata.
Cosa che mi ha fatto un grande piacere. Pensi neanche lo sapevo. La cosa geniale però era che contemporaneamente su Rai due stavano dando La stella che non c’è.
Praticamente “Occupy tv”.
Esatto. Io sono molto fiero delle fiction che ho fatto. Di Padre Pio, di Don Milani, di Ferrari. Credo che quelle fiction lì, che oggi non si fanno più, avevano una buona qualità cinematografica. Un territorio nobilmente popolare che oggi non c’è più.
Ha interpretato molte figure di democristiana memoria. Le manca qualcosa di trasgressivo. Tipo il biopic di Marco Pannella, un altro naso importante.
A Marco Pannella, diversi anni fa a Taormina, dedicai in diretta un nastro d’argento pregandolo di smettere lo sciopero della fame perché avevamo ancora bisogno di lui. Mi chiamò il giorno dopo e mi disse “Non ti preoccupare, stai tranquillo e grazie”. Lei parla di territori democristiani, ma un anno prima di Padre Pio, feci L’ora di religione di Marco Bellocchio. Ho fatto quindi sia il diavolo che l’acqua santa.
Pensavo a un personaggio davvero trasgressivo.
No, non me ne hanno mai proposti.
Scusi, ma lei è anche regista, potrebbe farlo tranquillamente Marco Pannella.
Certo, e non sarebbe male. Mi divertirei come un pazzo. Con una bella parrucca bianca. La vita di Marco è straordinaria. Mica male come idea.
Tornando al compleanno, su che torta spegnerà le candeline?
Quello che mi farà Margaret. La torta al cioccolato.
Ma sembrate la famiglia di una pubblicità, avete per caso in campagna anche il mulino che gira? La Barilla non vi ha mai contattato?
No, non ce l’abbiamo un mulino. Abbiamo tutto, meno non quello. E non mi hanno mai offerto la pubblicità.
Davvero?
Non è capitato, non è mai successo. Le confesso che ho una certa verginità da questo punto di vista, che mi fa anche piacere.
Come è possibile con una carriera come la sua?
Molti anni fa mi proposero qualcosa che riguardava i telefonini, ma cose piccole, campagne, diciamo così, veloci, niente di strutturato. Quelle cose che ti consentono di…
Di comprarti una casa in campagna?
Esatto. No, no, no. Le case me le sono comprate con i bei film. Non è una cosa che mi ha mai interessato. Non me la sono mai andata a cercare.
“What else?” però sarebbe in grado di dirlo per soldi?
(Ride, ndr.) Non ci vuole granché. Al limite mi farei doppiare da Pannofino!
Lei è molto popolare anche in Francia, come Nanni Moretti.
Sono due carriere diverse. Quello che mi fa piacere è che ho sempre fatto film di totale produzione francese, dove magari serviva un attore italiano, ma mai coproduzioni. Ho avuto la fortuna di lavorare con un gigante come Jacques Rivette e molti anni prima con Luc Besson. Ho lavorato in Francia per almeno una decina d’anni.
E poi cosa è successo?
Poi la vita ha preso il sopravvento. Anche una certa pigrizia, una certa indolenza mastroiannesca, che mi riconosco, per cui si sta così bene in Italia. E poi sa che c’è? Un attore è innanzitutto la sua lingua. Ti puoi anche divertire a recitare una volta in francese, una volta in inglese, ma non è la stessa cosa.
Reciterà solo in italiano d’ora in poi?
Ho fatto una cosa molto divertente adesso con Edward Berger, il regista che ha vinto l’Oscar con Niente di nuovo sul fronte occidentale. Il film si chiama Conclave, tratto dal best-seller di Robert Harris con Ralph Fiennes, Isabella Rossellini e Stanley Tucci. Faccio questo cardinale intollerante e cattivissimo.
È ancora un privilegio per lei fare questo lavoro?
Si ma questo privilegio lo devi ripagare con la qualità. Ed è quello che ti soddisfa, quello che ti fa piacere. Quando tu senti la gratitudine da parte del pubblico. La cosa più bella che mi hanno detto l’anno scorso a teatro, su un monologo che mi hanno scritto tanti anni fa, Zorro, la storia di un clochard, fu un “grazie” urlato dalla platea. Mi si sono illuminati gli occhi. Capisce mi ha urlato non un “bravo”, ma un “grazie”. Che vuoi di più della vita?
Per quanto riguarda la regia, sta aspettando il prossimo libro di Margaret?
No, stiamo pensando a qualcosa, ma non c’è niente di definitivo. Però un’ideuzza sta crescendo, e mi affascina molto. È come dire, ancora nella zona embrionale.
Dove tiene tutti i premi vinti?
In una vetrinetta accatastati in un angolo qui in campagna, per carità. Ci veniamo poco, per cui non stanno sempre in mezzo.
Qual è quello che ha messo più in vista?
Sono tutti abbastanza allineati. Ma c’è uno che mi ha fatto particolarmente piacere ricevere, anche perché esteticamente è molto bello: il premio D’Annunzio, che mi ha dato Giordano Bruno Guerri dopo che ho interpretato il letterato ne Il cattivo poeta. È una bellissima, piccola scultura di un cavallo.
Alla fine dell’intervista, abbiamo trovato il personaggio trasgressivo che ha interpretato.
Altrochè! È super trasgressivo. D’annunzio è un altro dei geni compresi e incompresi che abbiamo avuto in questo Paese.
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