“Rossetto amaranto, kajal e mascara”. Diego Dalla Palma dice che l’unione dei tre rende ogni volto più intenso, “nonostante nessun viso sia uguale a un altro”, chiarisce subito. Anzi, “l’omologazione è il cancro dell’immagine”. Lui non è solo un nome che luccica sui preziosi cofanetti delle profumerie ma 72 anni “di un vecchio intenso che non ha mai barato con la vita”. Sceglie queste parole per definirsi uno dei creatori di immagine più famosi del mondo, chiamato “il profeta del make-up” nel 1985 dal New York Times.
Rossetto, kajal e mascara. Non servono a nascondere le imperfezioni ma a esaltare labbra, occhi e ciglia. Non camuffano ma rivelano. “La bellezza è quello che della vita il volto restituisce, è scomoda”. Questa filosofia Dalla Palma la porterà a teatro in uno spettacolo dal titolo La bellezza (tra vacche e stelle). Una visione non distante dalla sua esistenza, sospesa tra estremi all’apparenza intoccabili. Le mucche dell’alpeggio delle native Alpi venete e il caos di Milano, i costumi di scena, le grandi donne dello spettacolo che ha trasformato.
Che cosa significa che “la bellezza è scomoda”?
La bellezza è imperfezione, per questo è scomoda. Nasce dall’esperienza di ognuno. Non esiste una bellezza perfetta, sarebbe omologazione. E cioè il cancro dell’immagine.
Questa filosofia si è formata col tempo?
Ci sono arrivato attraverso il dolore della mia vita. Ho trasformato tutti i miei dolori in quella che mi piace chiamare “luccicanza”. Se la mia anima fosse legata solo al mio corpo, dovrei girare per il mondo come un ustionato di massimo grado. Invece queste piaghe sono piene di luce. Non mi hanno annientato ma mi hanno dato più coraggio, più sicurezza in me.
Quali dolori?
A sei anni per una meningite sono stato in coma. Ero un bambino sensibile in un paese di montagna. Ero bullizzato. Sono andato a Venezia in convitto dai preti, dove sono stato abusato. E poi l’inizio della carriera non è stato facile. Non avevo soldi. A Milano provo la Sezione Costume Rai ma mi respingono finché la costumista Maud Strudthoff mi offre l’opportunità di vestire Corrado. Da quel momento, passo dopo passo, le dive. Dalida, Mariangela Melato, Anna Marchesini, Ornella Vanoni, Twiggy.
Che cosa guarda per prima cosa in un volto?
Gli occhi. E poi stringo la mano. Dallo sguardo conosco la persona e capisco quanto è bisognosa di me, quanto non lo è, quanto e come devo intervenire.
Gli accessori, come i trucchi e i costumi, si legano all’identità?
Sì. Per esempio, mi accorgo con amarezza che i nostri politici e i nostri industriali, coloro che hanno a che fare con i soldi, con il potere, sono grigi, sono banali. Perché il loro obiettivo non è essere coraggiosi, quindi belli, ma solo il potere. Vestono con gli stessi colori: grigio, blu, marrone.
Forse non tutti conoscono il dolore e la luccicanza?
Non serve mica il dolore per vestirsi in un certo modo. Credo che serva l’intelligenza e la curiosità. A me dicono: “Sei un bel vecchio”. Ma no, io sono un vecchio intenso. Perché continuo a essere curioso ogni giorno. Cerco di essere anche un po’ incosciente e vivo sentendomi libero. Non ho mai barato con la vita.
Come si fa a non barare con la vita?
Facendo una classifica di valori con intelligenza. Sono contento di aver messo sempre al quarto posto i soldi. Al quarto su cinque, quindi al penultimo.
E al primo?
I viaggi. Al secondo i miei genitori. Al terzo la crescita. E all’ultimo la preparazione filosofica alla morte. Mi preparo a sorridere alla morte.
A che cosa serve il suo lavoro?
A interpretare un essere umano e quindi anche la realtà. Il costumista, lo scenografo, il truccatore rendono le persone protagoniste della loro vita. Gli attori diventano i personaggi di un film anche attraverso le maschere. Creare protagonisti: questo fa il bravo costumista, truccatore, parrucchiere.
Crede che una maschera sia necessaria anche nella vita?
Tutti noi indossiamo una maschera. Ci sono persone che ne hanno bisogno. La maschera le rende talmente interessanti da farle diventare principi e principesse di seduzione. Ho conosciuto grandi attrici che dicevano che solo con un bel costume riuscivano a dare il massimo. Il costume rendeva Cechov o Shakespeare. Il costume è una maschera ma non per forza deve nascondere chi c’è dietro. Può anche svelarne la vera identità.
Come si è evoluta la sua professione in questi anni?
In peggio. Perché la direzione è stata quella dell’omologazione. Influencer e blogger propongono sugli altri sosia di loro stessi.
Ma è anche “moda”?
No. La moda è scegliere qualcosa di particolare che ci rappresenta. Si tratta di personalità. Con l’omologazione si perde la parola magica che è l’individualità.
Prima si lavorava con l’individualità?
L’individualità è stato il grande tema trattato dagli esperti d’immagine di Hollywood, del cinema francese, del cinema inglese. Tutti gli attori più famosi passavano sotto le mani dei geni dell’immagine, come il parrucchiere Sydney Guilaroff. Si passavano giorni interi con gli attori per provare tutto il necessario. Per il make-up si studiavano le regole antropometriche, la fisiognomica.
E adesso?
Ora ai grandi eventi, come al Festival di Sanremo, uno stilista mette a disposizione una somma e gli artisti indossano i suoi abiti. Solo perché va di moda, solo perché c’è un accordo. Non c’è cura dell’individualità. È un autogol. I curatori di immagine dovrebbero tenerne conto.
L’articolo originale è stato pubblicato sul magazine The Hollywood Reporter Roma di agosto.
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