Raggiungiamo Valentina Lodovini a Londra. Non è lì per un provino, ma per un concerto. L’attesissimo live dei Blur, in cui il frontman Damon Albarn piangerà a dirotto in un momento di unione e condivisione con i fan che rimarrà nella storia delle performance musicali dal vivo.
L’attrice ha l’entusiasmo di chi vive l’arte come un’esigenza, una forza immanente a cui non si può resistere, è tra le poche che il cinema non solo lo fa, ma lo ama. Sente il bisogno di vederlo, di viverlo, di condividerlo, di parlarne (con una competenza, peraltro, decisamente superiore a molti critici o supposti tali). Anche per questo è tra le più corteggiate dalle giurie dei festival, per la curiosità innata e la capacità di analisi non comune, e così ecco che la troviamo presidente del consesso che giudicherà il concorso internazionale di corti dell’Andaras Traveling Film Festival (11-15 luglio 2023), arrivato alla sua quinta edizione e che quest’anno ha come tema “Viaggiare Leggeri”. La rassegna si tiene in Sardegna, nella provincia di Carbonia-Iglesias, è multidisciplinare (mostre, paesaggi sonori, concerti), ha una creatività e una forza che vanno pedinati anche nel futuro. Come Valentina (che peraltro sarà anche tra i “giudici” del bellissimo Orvieto Cinema Fest), che della viaggiatrice ha l’inquieta voglia di scoprire e il cercare sempre qualcosa oltre e altrove.
Lei, in questi giorni, è la presidente di giuria del cinema di viaggio. Le faccio la domanda più banale, cos’è per lei viaggiare?
Chiunque ama viaggiare, mi sembra una banalità. Se hai l’opportunità di farlo credo sia impossibile resistere allo stimolo costante dell’esplorazione. Per me però è qualcosa di vitale, mi sento soffocare se non mi muovo, se non vado a scoprire qualcosa, a farmi sorprendere da luoghi e persone. E a volte è difficile stare dietro a questo impeto, questo desiderio smodato di respirare un’altra aria, di vedere cose nuove, di osservare come le altre culture si esprimano. E lo so che a chi mi sta vicino tutto questo, vissuto in questo modo, può risultare persino fastidioso. Mia mamma mi diceva “non hai pace”, ma non è voglia di evasione, è proprio nutrimento, immagazzinare odori, sapori e colori. Sarà un’espressione forte, ma ogni volta che sono costretta a stare ferma, mi sento un po’ morire dentro. Mi spengo a poco a poco.
Domanda alla Marzullo. Si viaggia per (soprav)vivere o si vive per viaggiare?
Tutte e due, direi. Viaggiare serve a vivere meglio, non è solo una fuga da preoccupazioni e delusioni, ma un modo per uscire da se stessi, che è molto diverso. Se devi fare una scelta importante, andare altrove ti permette di mettere tra te e la decisione una giusta distanza – ogni volta che uso questa espressione che amo molto mi sembra di autocitarmi (Valentina Lodovini è la splendida e dolente protagonista de La giusta distanza, tra i più bei lavori del compianto Carlo Mazzacurati, ndr) – e magari di andare nella giusta direzione. Se rimani ferma, invece, ti concentri sul tuo ombelico, ti impantani dentro te stessa.
Il segreto del cinema e del suo lavoro. Viaggiare, anche rimanendo fermi.
Vale per questo ruolo di presidente di giuria, ad esempio. L’Andaras Traveling Film Festival ha fatto una selezione che ho amato molto, ci sono corti bellissimi e molto emozionanti e se un lavoro cinematografico ti provoca sentimenti e sensazioni forti ti fa viaggiare. D’altronde nell’etimologia della parola emozione c’è il moto, il movimento, che nella migliore delle ipotesi insidia l’equilibrio dello spettatore che, appunto, non può rimanere fermo a quel punto. E anche quando la macchina da presa non percorre chilometri, indaga viaggi interiori.
Lo stesso vale per il privilegio del fare l’attrice. Ti muovi dentro mondi altri, persone differenti e pazienza se nella vita privata non sei del tutto centrata dentro una personalità, una categoria precisa. Definirsi è sintomo di pigrizia, lo fai perché non vuoi viaggiare fuori e dentro di te, preferisci un recinto. L’essere umano è continua evoluzione, rimbalza continuamente tra le proprie insicurezze, fragilità, meccanismi, interiorità. L’introspezione stessa è un viaggio, forse il più bello che puoi fare, ed è fondamentale nel mio lavoro, che per questo è straordinario, unico. Il mestiere più bello del mondo.
Ogni personaggio è un viaggio?
Per me sì. Ho quaderni, diari, per ogni donna che ho interpretato, dove ci sono le tappe della vita che l’hanno portata ad essere com’è nel film, nella pièce teatrale, nella serie. I misteri che nasconde ma anche quanto guadagna, cos’ha studiato, tutto. Perché ogni dettaglio è importante, mi documento sul suo lavoro, su come si fa. Voglio sapere i suoi gusti, a ogni ruolo io abbino un odore, un profumo che può anche non piacermi ma che a mio parere disegna la sua caratterizzazione. Quando si pensa a noi attori come esecutori, pochi intuiscono quanta creazione c’è nel dar vita a un personaggio. Se vieni a casa mia, questi taccuini li trovi tutti. Ricordo che Picchio mi prendeva troppo in giro per questa mia abitudine (fa una pausa, in ricordo di Libero De Rienzo, scomparso due anni fa, con cui ha attraversato un pezzo di vita e interpretato il cult Fortapasc di Marco Risi, ndr), ma è stato proprio lui a insistere per scrivere tutto nei diari, perché sapeva che mi avrebbe fatto piacere, nel futuro, ritrovare tutti questi viaggi.
Continuiamo a fare il gioco del viaggio: qual è il profumo, il ruolo, il compagno di viaggio che le manca?
Se me lo chiedi così, io penso a fare dieci viaggi insieme. Ma ciò che desidero ora è un personaggio complesso, sfaccettato, sfidante. La recitazione è uno strumento meraviglioso di indagine e credo di poterlo usare ancora di più e ancora meglio. Vorrei andare a fondo di un personaggio, nel bene e nel male. Mi vengono in mente le protagoniste femminili di Cristian Mungiu, Ashgar Farhadi, Pablo Larrain. Mungiu lo amo tantissimo e anche con l’ultimo film, Animali selvatici, ho amato la sua incredibile capacità di usare gli attori, i loro ruoli come un prisma attraverso il quale raccontare un’intera società, un momento storico, un paese. Una dote che credo manchi un po’ al cinema italiano attuale, fatta eccezione per pochissimi autori.
Giochiamo ancora. Per quale paese comprerebbe un biglietto aereo solo andata?
L’Irlanda. Amo quel paese, il cinema che produce, così indentitario e locale e allo stesso tempo universale. Lo ammetto, vado a momenti, mi trovo a essere trascinata da alcuni film nel desiderare di lavorare in un luogo o in un altro, ma di sicuro ora sono condizionata dalla bellezza da cui sono stata inondata guardando, tre volte, Gli spiriti dell’isola – ecco, tornando alla domanda di prima, pagherei per interpretare la sorella del protagonista! – o Creature di Dio, ma quanto è brava Emily Watson? Ecco, voglio ruoli così. L’Irlanda ha qualcosa in più, la sua cinematografia la divoro tutta, mi chiudo nell’Irish Film Institute per trovare quello che non arriva fino alle nostre sale. E The Quiet Girl o Paul Mescal in Aftersun? Dai, è una cinematografia pazzesca. Poi intendiamoci, il cinema non ha confini, non deve averne, ma lì succede qualcosa di magico. Sono molto legata anche all’Irlanda come terra, perché è un territorio in cui l’uomo non ha potuto metterci mano e dove la natura ha vinto. E questa battaglia eterna, questa sconfitta la senti profondamente nella letteratura irlandese, nel cinema irlandese, nel teatro irlandese, che si traduce sempre in autenticità, genuinità, purezza. La loro è un’arte mai invadente che ti restituisce con una potenza straordinaria la semplicità dell’essere umano.
La lascio, per prepararsi al concerto dei Blur. Qual è la loro canzone che la fa piangere, cantare e urlare?
Tutte, sono un po’ secchiona, prima di un concerto ripasso. Io adoro studiare, ma poi lì ci vado con la maglietta di Noel Gallagher, quindi sono una secchiona anarchica, provocatrice. Però se devo sceglierne una, The Universal. Lì divento una fontana (Albarn ci ha chiuso il concerto, ma le sue lacrime sono arrivate alla canzone prima, Under the Westway – nda)
L’ospitata dalla Gialappa’s è stata sorprendente e irresistibile. Pensa a un futuro alla Simona Ventura?
No. Con tutto il rispetto per il suo percorso, ma sono un’attrice. Non potrei mai legarmi a una stagione televisiva e magari privarmi di ruoli al cinema o a teatro. Però adoro andare fuori dalla mia zona di comfort, sfidare giudizi e pregiudizi altrui su di me, è una delle poche cose di cui sono veramente orgogliosa e fiera di me stessa, il mettermi in situazioni che non conosco. L’importante è che mi senta protetta, dalla qualità di ciò in cui mi infilo, dall’intelligenza dell’umorismo della Gialappa’s in questo caso. Va bene one shot, ma se mi tieni lì ferma sei mesi, appunto, non mi permetti di viaggiare. Preferisco affrontare il rischio di stare ferma a fissare il muro, ma di sentirmi sempre libera.
Come a teatro, dove quella complessità l’ha raggiunta e pure doppiata?
Se ti riferisci a Tutta casa, letto e chiesa di Dario Fo e Franca Rame, sì. Tre donne (più una, tre monologhi e un epilogo) frustrate, abusate, imprigionate da maschi tossici e assenti, in cui io mi spendo fisicamente, mentalmente, emotivamente oltre il possibile. Ma negli applausi, nel trasporto di chi veniva a vedermi sentivo un rapporto di fiducia tra me e il pubblico unico. Per questo ora lascerò questo spettacolo, anche lì non riesco a stare ferma, ho bisogno di altro. Per fortuna nella pièce originaria i personaggi sono sei, magari posso fare un sequel. Però voglio confessarti come mi sento io, quando mi vengono a dare i cinque minuti prima di andare in scena. Sono l’animale in gabbia a cui aprono la gabbia. Quell’infartino prima di entrare in scena, le ginocchia che tremano, la paura costruiscono insieme quel momento meraviglioso che non voglio perdere mai. E poi accarezzare il pubblico, ruggirgli contro, sbranarlo, divorarlo, portare me stessa e loro a sentirci liberi, è un viaggio. Ogni sera, ovunque.
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