Se scriviamo articoli sugli anniversari, lo dobbiamo anche ad American Graffiti. Cinquant’anni fa, George Lucas era riuscito a catturare e mettere in teca un sentimento: la nostalgia. Non lo sapeva bene forse, ma aveva tra le mani il petrolio di Hollywood. Viene in mente la fabbrica di Monsters & Co., alimentata da un’emozione – non a caso, parlando di nostalgia, viene in mente un film uscito quando chi scrive era un bambino. Guardate la programmazione del multisala: Mission Impossible, Spider-Man, La Sirenetta, Barbie. C’è Indiana Jones – l‘eroe chiamato come il cane di Lucas – con Harrison Ford – che in American Graffiti ha la sua prima memorabile parte. Ancora oggi non riusciamo a fare a meno di pensare a ieri.
Come forse a ognuno di noi, nel ’73 a Lucas mancava il liceo. Gli mancava la vita di Modesto, California – un nome, un programma – fatta di balli scolastici, piccole gang, giovani amori, e di tante, ma tante macchine. Il cruising – guidare a zonzo per le strade, senza nulla da fare, incontrare persone, rimorchiare, dare gas al motore. Per quasi due ore, American Graffiti non parla di nient’altro. Una notte passata in macchina per John, per gli amanti litigarelli Steve e Laurie, per il “Rospo” Terry. La mattina dopo, Curt prende l’aereo “per l’est” che lo porterà al college. Dall’alto, vede la macchina della ragazza desiderata e mai conosciuta, il simbolo di una vita possibile passata rimanendo a casa. E in sovraimpressione, Lucas ci informa del senso del film: John morirà investito, Steve rimarrà a Modesto a vendere assicurazioni, Terry sarà disperso in Vietnam.
È la sanzione della perdita dell’innocenza, la miccia della nostalgia. In Recycled Culture in Contemporary Art and Film, la critica Vera Dika spiega: “Sono i titoli di coda di American Graffiti a palesare ciò che era rimasto in gran parte non detto durante il film”. Cioè quello che verrà dopo, il Vietnam, le proteste, gli assassinii. Con l’aereo di Curt se ne vanno anche i fifties, un’età dell’oro solo per chi conosce il futuro. Ma con American Graffiti comincia il filone infinito dei nostalgia movies, in cui il ricordo non ha niente a che fare con la storia, ma ha a che fare con le mode, gli oggetti. La ricostruzione storica non è sociale, è merceologica: le luci, le macchine, i vestiti, i neon. È il vintage.
Captò qualcosa, Lucas. Di fronte a un budget di nemmeno un milione di dollari, American Graffiti ne procurò duecento tra box office e home video. Fu la matrice di molto cinema americano, uno dei film doppiogiochisti della New Hollywood, che mentre entrava nel filone – critica sociale, temi sconvenienti, basso budget… alla produzione Francis Ford Coppola! – intanto preparava il campo all’arrivo del blockbuster e al ritorno dello studio system. Il protagonista Richard Dreyfuss sarà presto uno dei volti della caccia allo squalo in Jaws, il prescelto dagli alieni negli Incontri ravvicinati del terzo tipo. Ron Howard (Steve) farà il miglior amico di Fonzie, dando vita a uno dei massimi motori di nostalgia, Happy Days, e dirigerà lui stesso film di Star Wars.
Cinquant’anni dopo a mancarci non sono solo il liceo, le Chevy, i diner – chi c’è mai stato in un diner? American Graffiti è anche uno di quei film che inventa la nostalgia per tempi e luoghi mai vissuti – ma a mancarci sono anche i film, la merce culturale contemporanea che sono le Proprietà Intellettuali.
O per lo meno questo è quello che hanno spiegato a Lucas i produttori della Disney, mentre gli parcheggiavano in giardino un camion di dollari per Star Wars e Indiana Jones. Ma in American Graffiti c’era un’intuizione fondamentale, da poco ritrovata dal compagno di avventure Steven Spielberg. Il suo ultimo film The Fabelmans ricorda molto American Graffiti: il liceo, gli amori, gli anni Cinquanta, i film. Ma non sono quelli a mancare a Spielberg. È la mamma. Quando uscì American Graffiti a mancare non furono tanto le macchine, ma i tempi in cui si guidavano.
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