Il multiverso è l’eterno presente. Lo dicevano Sant’Agostino, Aristotele e Heidegger, i più immensi e immortali dei filosofi. Che avevano capito il futuro. O forse avevano già visto, in una realtà parallela, i film della Marvel e quelli dei supereroi targati Dc, magari anche l’ultimo – o forse non ultimo, non è dettissimo – Indiana Jones.
Prendete, appunto, il vecchio Indy, appena approdato nelle sale di tutto il mondo con grande fanfara, come sempre capita ai blockbuster. Pieno di rughe e acciacchi, dolente e nostalgico nonché appena pensionato, vorrebbe vivere i suoi ultimi giorni in un altrove lontano duemila anni (non vi diciamo se prima o dopo, che sennò l’algoritmo si arrabbia). Ha lo stesso cappello, la stessa giacca, la stessa frusta di quando, nel 1936, se la vedeva con i nazisti. Ma oggi (ieri, domani, ossia negli anni Sessanta) si ritrova a dover affrontare ancora una volta il male assoluto del nazismo, ed il nuovo cattivo è anche lui un nazista con gli occhialini fumé, un po’ come quello dell’Arca Perduta di quattro decenni fa.
Indiana Jones a cavallo delle epoche
In altre parole: nella sua nuova (e vecchissima) avventura, Indiana Jones ed il quadrante del destino (diretto per la prima volta da James Mangold al posto dell’immarcescibile Steven Spielberg), l’eroico archeologo è trascinato dal vortice degli eventi a vedersela con l’abbattimento delle nozioni di passato e presente, tanto che viaggerà – dentro la storia, nel film e nella sua amorosa relazione con gli spettatori – a cavallo di tre o quattro epoche diverse. Dalla Seconda guerra mondiale ai roaring sixties dell’allunaggio, passando dall’antichità ai primi anni Ottanta, nei quali uscirono i primi capitoli della saga, fino all’oggi nostalgico di un passato epico e pieno d’emozione: Indy salta di epoca in epoca senza soluzione di continuità, attraverso appositi varchi temporali.
La stessa cosa che, peraltro, accade in praticamente tutti i blockbuster fantascientifici dell’ultima generazione. Come gli Avengers, come Loki, come Interstellar, come Spider-Man, come la serie Foundation da Isaac Asimov. Come – tornando nel tempo – Ritorno al futuro, ovviamente. E come The Flash, supereroe disfunzionale della Dc talmente veloce da abbattere anche lui ogni nozione del tempo.
Gli universi di The Flash
Proprio come Indiana ed il suo antagonista venuto dalle ombre del Terzo Reich (ma impiegato in una cosa futuribile come la Nasa), The Flash vorrebbe tornare indietro a modificare il passato e ovviamente combina un disastro universalmente apocalittico, creando (lo mostrano già i trailer) il proprio doppio, un The Flash diciottenne (quanto mai irritante, ma questa è un’altra storia), insieme al quale ingaggia un braccio di ferro con il fluire del tempo e con gli universi paralleli talmente bombastico da rischiare il collasso di ogni realtà – di ogni esistenza – possibile.
E’ noto: le timeline parallele sono da tempo l’ossessione del cinema. Quasi l’ultimativo meccanismo di rivoluzionamento dello storytelling, il marchingegno narrativo che permette la rinascita di ogni storia, di ogni reboot, sequel o prequel che dir si voglia. Per cui, com’è chiaro, sono anche un formidabile strumento di rigenerazione industriale (salvo che ad un certo punto forse ce ne stancheremo): ultimo giochetto è il ringiovanimento digitale, che piomba l’anziano Harrison Ford alias Indy Jones nei suoi quarant’anni, lui che ne ha ottanta, così come abbiamo già visto Mark Hamill alias Luke Skywalker diventare di nuovo ventenne e Carrie Fisher miracolosamente risorgere nelle costanti rigenerazioni di Star Wars, saga ogni volta a nuova vita restituita (un po’ come, al netto delle tecnologie, succede a Shakespeare e alle tragedie greche).
Il paradosso delle timeline
E’ questo il paradosso delle timeline moltiplicate per mille, del rifrullare di ogni tempo ed epoca l’una nell’altra: finiscono per produrre, nei fatti, un eterno presente, dove il passato è presente, il futuro è passato, l’oggi è il domani, ma anche il giorno remoto. Sì, quasi quasi sembrerebbe l’eterno presente di cui parlava Agostino, il più santo dei filosofi (o il più filosofo dei santi, fate voi).
Aveva capito tutto, il pensatore delle Confessioni, oppure è stato saccheggiato dagli sceneggiatori di Hollywood: lui diceva che il passato e il futuro non esistono se non in quanto presente, lui che diceva che “il presente stesso è fluire, passaggio, ed è quindi inesteso e non sembra misurabile” (questo è il sunto della Treccani, ma probabilmente il vecchio Bignami si esprime allo stesso modo). Parlava del tempo come “misura dell’estensione dell’anima”, il santissimo Agostino, proprio “nel ricordo, nell’attenzione e nell’attesa”.
Archimede in persona
Che sono concetti che si adattano meravigliosamente all’ultimo Indiana Jones. Dove tutta la storia ruota (è proprio il caso di dirlo) intorno al quadrante del titolo, un marchingegno inventato nientemeno che da Archimede in persona: un aggeggio che se ne trovi la seconda metà (e qui risuona pure l’eco di Platone) ti permette di aprire varchi temporali in cui infilarti.
Per quanto riguarda l’approdo il difficile è beccare il tempo giusto: i piani del nazista interpretato da Mads Mikkelsen (ispirato al vero Wernher von Braun, il volonteroso scienziato di Hitler poi assunto dalla Nasa per andare sulla Luna) sono degni di un film di Leni Riefenstahl, ma non sempre i varchi temporali riescono sul buco, si sa, per cui le sorprese della storia (oppure del plot-twist, uguale) non andranno nella direzione da lui auspicata.
Ordini cosmici (e pitagorici)
Quello che però appare chiaro, nell’idea di tempo che hanno gli sceneggiatori di Hollywood (talmente stressati dal superlavoro da essere entrati in sciopero), è il suo “movimento circolare”: era Aristotele a parlarne in questi termini, che ne accettava “il principio pitagorico dell’ordine cosmico come punto di riferimento oggettivo per la misura temporale”.
Vi risparmiamo, invece, il discorso del più arcigno e difficile dei filosofi tedeschi, Martin Heidegger, che nella sua somma opera Essere e tempo (1927) ipotizza che “l’esserci” dell’uomo (il Dasein) è dato proprio dalle dimensioni di passato, presente e futuro.
Einstein a casa Batman
Che poi è – proprio alla lettera – il tema di Indiana Jones anno domini 2023. Ma anche di The Flash: lui e Batman (che a seconda delle diverse timeline è interpretato da attori diversi, una volta da Ben Affleck, l’altra da Michael Keaton) si lanciano in una serie di scambi di battute che sembrano la versione appena un po’ più moderna dei dialoghi di Platone, mentre qua e là si arrivare a discettare pure del “paradosso spazio-temporale”.
Che non solo è più o meno la chiave narrativa che sostiene The Flash, ma è puro Einstein, of course: il paradosso temporale, diceva il supremo Albert, è quella cosa per cui “se si potesse scattare da fermi e superare la velocità della luce, in un tempo indefinito potremmo vedere noi stessi mentre siamo ancora alla postazione di partenza”.
Al campanello suonare Hollywood
Per certi versi, è quello che accade nella incredibile sequenza iniziale del film della DC (peraltro una specie di riflessioni sulla moltiplicazione dell’io, e qui si aprirebbe un’ulteriore riflessione filosofica non da poco), quando il nostro supereroe interpretato dal nervoso Ezra Miller salva una decina di neonati che volano da edificio che sta per crollare: è tutto talmente veloce che l’azione è lentissima, lisergica, sognante e delirante, la fluttuazione degli eventi diventa una variabile surreale.
Essere e tempo: oggi si declina con i superpoteri, gli effetti digitali e l’intelligenza artificiale il multiverso della filosofia: invece che a Heidegger, al campanello basta suonare Hollywood.
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