“Non sono gli anni, è il chilometraggio”, lamentava uno stanco Indiana Jones ne I predatori dell’arca perduta. Nell’imminente quinto film della saga, Il quadrante del destino, sono gli anni e il chilometraggio. Harrison Ford ha ormai 80 anni, il che lo rende quasi certamente l’unico ottuagenario a diventare il protagonista del film d’azione di un grande studio hollywoodiano.
Per il regista James Mangold – che conosce Ford da anni e ha già lavorato con lui in Il richiamo della foresta – l’età di Ford-Indy ha rappresentato una sfida e un’opportunità per raccontare un diverso tipo di avventura nell’atteso quinto film della saga, in uscita il 28 giugno, che vede Indiana allearsi con la sua figlioccia (Phoebe Waller-Bridge) in una nuova missione.
“Non possiamo nasconderci da dove siamo nella nostra vita, nessuno di noi può farlo. E nemmeno Indiana Jones può farlo”, dice Mangold. “Ho voluto seguire l’esempio di Harrison e affrontare la questione in modo diretto. Non è solo un film su un eroe al tramonto che viene richiamato in azione. Non si tratta solo del fatto che le sue ossa possano dolere, ma anche che la sua anima possa soffrire, o che possa essere svanito un po’ del suo ottimismo o della sua appartenenza al mondo. L’errore che si può commettere nei film – e tutti abbiamo visto film del genere – è che qualcuno ha un’età matura, ma l’intero film continua a far credere che non sia poi così vecchio”.
Il mondo intorno a Indy è andato avanti
Secondo Mangold l’aspetto cruciale di questo approccio è stato quello di non rendere Indy più vecchio (il personaggio è in realtà un po’ più giovane di Ford nel film, ossia 70 anni, ma Harrison facilmente può passare per settantenne), ma anche di mostrare come tutto ciò che circonda Indy sia andato avanti. È una sfida che era stata affrontata anche nel precedente film del franchise, Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo.
“I primi tre film si sono svolti più o meno nello stesso periodo”, osserva Mangold. “Si adattano tutti facilmente allo stile seriale, teatrale, quasi da screwball-action tipica dei film che uscivano nel periodo in cui sono ambientati. La sfida per Steven Spielberg nel Teschio di cristallo, e per me in questo film, è stata: come si fa ad andare avanti in nuovi decenni in cui il mondo non è più caratterizzato da demarcazioni così chiare, di bianco e nero e di bene e male? In cui l’intero concetto di saccheggio delle tombe e di lotta per le reliquie viene visto in modo diverso? Non si tratta di cambiare la storia, ma di permettere al personaggio di sperimentare come il mondo sia cambiato intorno a lui”.
La maggior parte del film è ambientata nel 1969, quando – così dice Mangold – gli eroi americani erano figure come gli astronauti, piuttosto che i soldati di ventura. “La nostra percezione della politica è più grigia”, aggiunge. “Chi è un cattivo? Con chi lavoriamo? Contro chi stiamo combattendo? Guerre per procura, questo tipo di cose. Non è così semplice come all’epoca della seconda guerra mondiale. Cosa succede a un eroe costruito per un mondo in bianco e nero quando si ritrova in un mondo grigio? È un problema che produce umorismo, produce contraddizioni, produce aggiustamenti che questo personaggio dovrà affrontare”.
Come de-invecchiare Harrison Ford
Ma, come i fan già sanno, la sequenza di apertura del film è ambientata ai tempi di gloria di Indy. Ford è stato “de-invecchiato” utilizzando l’intelligenza artificiale e la libreria della Lucasfilm con i filmati dei suoi lavori precedenti. Mangold afferma che la sequenza non è solo un divertente ritorno al passato, ma fornisce un contesto più significativo al personaggio per il resto del film.
E’ un trucco che “ricorda al pubblico il contrasto tra un eroe nel fiore degli anni e un eroe a 70 anni”, spiega ancora il regista. “Non facciamo affidamento solo sulla memoria dei film precedenti. Il pubblico ricorda a tutti ciò che Indy ha fatto, quello a cui è sopravvissuto, ciò che ha realizzato. Avendolo visto in piena forma e poi ritrovandolo a 70 anni a New York, il pubblico ha una sorta di meravigliosa sferzata di come dovrà riadattare il proprio cervello. Il suo passato è un ricordo vivo per il pubblico, ed incombe su un uomo che ora vive nell’anonimato in un mondo che non si preoccupa più di riconoscere le cose che gli stavano così a cuore. Si rimane con una percezione a più strati del personaggio, sia di quello che era che di quello che è, e di come il mondo sia diverso tra i primi 20 minuti del film”.
Ford ha recentemente rivelato che le battute più scontate sull’età sono state eliminate dalla sceneggiatura di Dial of Destiny: si è preferito mostrare piuttosto che raccontare. “C’è un momento in cui Indy vede se stesso in questa situazione e dice ‘che cazzo ci faccio qui dentro?'”, racconta Ford. “Ma detesto quel che chiamo ‘parlare della storia’. Voglio vedere le situazioni in cui il pubblico ha la possibilità di vivere la storia, non di essere condotto per mano attraverso i punti salienti che vengono loro indicati. Preferisco creare un comportamento che sia lo scherzo dell’età piuttosto che parlarne”.
“Harrison? Era pronto a tutto”, giura Mangold
Allo stesso Mangold ha dovuto realizzare anche le classiche sequenze d’azione elaborate e fisicamente intense che i fan della saga si aspettano. L’intelligenza pragmatica di Indy si è rivelata utile in questo caso: dopo tutto, è l’uomo che ha semplicemente sparato all’uomo con la spada nei Predatori dell’arca perduta. “Indy ha sempre cercato di trovare la via d’uscita più semplice da un conflitto”, dice Mangold. “Usa il suo cervello per risolvere un puzzle nel bel mezzo di qualcosa che minaccia la sua vita. Non è un personaggio costruito per essere un pistolero o un eroe muscoloso in stile Marvel. Ha sempre cercato la via d’uscita più rapida da una situazione, ma questo diventa molto più impegnativo quando si hanno 70 anni. Quindi il suo bisogno di trovare modi ingegnosi per uscire da un problema aumenta”. Fatto sta che quando arrivava il momento di esprimere fisicità, Mangold dice che Ford è stato in grado di affrontare la sfida.
“Harrison era pronto a tutto”, dice Mangold. “Semmai era lui a lottare per fare le cose, e io gli dicevo: ‘No, questo no’. Il suo atteggiamento era tenace ed entusiasta riguardo a tutti gli aspetti del ruolo, compresi quelli fisici”.
Dopo un po’ di tempo, anche Ford si è affaticato, a forza di essere continuamente sballottato. “Quando hai 79 anni, il solo fatto di essere buttato a terra è un trauma”, dice Mangold. “Harrison non è diverso da Indy, nel senso che porta con sé le cicatrici di tutti i film che ha fatto, oltre alle sue calamità private. È letteralmente l’incarnazione di tutte le contusioni, le ossa rotte, i rimbalzi sui muri e le botte a terra per tanti anni. Come ogni attore o stuntman vi dirà, queste cose hanno il loro peso, soprattutto quando il regista continua a dire: ‘Ancora una volta!’. A un certo punto Harrison si è girato verso di me e mi ha detto: è l’ultima volta che cado per te!”.
Recitare è come giocare a scacchi in 3D
Altrettanto impressionante, per il regista, è stato il modo in cui Ford ha elaborato gli elementi quotidiani della lavorazione del film, come ha profondamente riflettuto sul suo personaggio e su come come Indiana avrebbe reagito alle varie situazioni che aveva dovuto affrontare.
“Ci si rende conto dell’istinto profondo che ha, non solo come attore, ma anche della sua comprensione di come usare la macchina da presa”, dice. “La recitazione cinematografica è come giocare a scacchi in 3D. Non si tratta solo della verità della performance, ma anche di adattarla all’inquadratura e di sapere cosa funzionerà. L’aspetto che mi è sembrato più interessante – e non posso dire di averlo trovato sorprendente perché il suo corpus di lavori lo rappresenta pienamente – è che si percepisce che lavora ogni momento per eliminare l’assurdità della scena: cerca i modi per rendere queste assurdità più simili alla vita, per smontare i momenti falsi e per prendere in giro il suo stesso personaggio. Ha un grande senso di come essere un eroe e allo stesso tempo di come smontare gli stereotipi dell’eroismo. Lo vedi riflettere tutto il giorno a come camminare su questa corda tesa, a come giocare contro l’ovvietà della scena. E come trovare l’umorismo laddove non si potrebbe pensare che ci sia. Queste doti sono il segno distintivo del suo lavoro”.
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