Atomi che danzano nel vuoto, stelle che collassano, nebulose in espansione, buchi neri, materia che si decompone. Come in un quadro di Picasso. Sono le visioni, oggi diremmo lisergiche, che tormentavano J. Robert Oppenheimer, il padre dell’atomica. Visioni che lo perseguitavano di notte e di giorno quand’era uno studente, quando andava a trovare il grande fisico Niels Bohr, ma anche successivamente, quando diventerà uno dei maggiori scienziati del mondo.
Un destino tremendo, specie se ti occupi di spaccare il nucleo e metti in discussione la materia come l’abbiamo sempre conosciuta (o credevamo di conoscere): come Bohr, come Einstein o sull’altro fronte (quello del Terzo Reich) come Heisenberg, che hanno vissuto la loro vita in bilico tra la scoperta di nuovi mondi e l’angoscia dell’aver contribuito a spingere il pianeta sull’orlo dell’apocalisse. Un’apocalisse autoindotta, oltretutto, la teoria che porta conoscenza ma finisce per diventare distruzione. O almeno, questo fu la grande paura di Julius Robert Oppenheimer per come viene raccontato nell’immenso, fluviale, inarrestabile, ambizioso e rumoroso affresco che ne fa Christopher Nolan.
Fondamenta che tremano
Rumoroso perché praticamente dall’inizio alla fine del film trionfatore ai Golden Globes 2024 (obbligatorio il grande, grandissimo, schermo) c’è un suono quasi ininterrotto come di fondamenta che tremano, una specie di continuo rombo d’esplosione che si estende su tutta la pellicola, o quasi. In evidente contrapposizione alla vera esplosione – la detonazione della prima bomba atomica della storia, quella del Trinity Test del 16 luglio 1945 in mezzo al nulla del Nuovo Messico, un nulla un tempo appartenuto agli indiani – che avviene nel più completo silenzio, un silenzio lunghissimo e accecante, non fosse per l’ansimare dello stesso Oppenheimer. Che, citando nientemeno che Vishnu, coglie l’immensità del momento e si definisce “io sono morte, il distruttore di mondi”.
Non finiscono, le visioni. Anzi. Quando la bomba ormai è realtà e lui si prende il plauso dell’America, vede i suoi ascoltatori (esaltati dal profumo di vittoria, ma anche di morte) decomporsi com’era appena accaduto alle vittime di Hiroshima. Le visioni sono una via maestra per capire Oppenheimer, così come lo è lo sguardo sgranato di Cillian Murphy, chiamato via Peaky Blinders ad interpretare il più tormentato ed enigmatico dei grandi scienziati del Novecento. E allora da giovane le sue visioni si alternano ad immagini di volti cubisti decomposti, al suono della Sagra della Primavera di Stravinskij, alla Terra desolata di T.S. Eliot: tutti sintomi di un mondo che stava cambiando vorticosamente, e stava cambiando il modo di comprendersi, stava rivoluzionando dalle fondamenta la concezione di ciò che chiamiamo realtà (in altre parole: Einstein come Picasso come Stravinskij come Wittgenstein, la bomba atomica come figlia paradossale della rivoluzione delle menti).
Tutto questo mentre la Germania nazista stava squarciando l’Europa e avviava la più colossale e meglio organizzata operazione di sterminio della storia.
Ecco, forse è proprio questo il punto (ecco perché il nuovo e molto atteso film di Nolan merita un tentativo di fenomenologia tutta sua): Oppenheimer è un film straordinariamente complesso per essere un blockbuster. Bombe atomiche e nazisti, teorie fisiche tra le più difficili e storie d’amore, ambizioni sovrumane quasi divine e sfide politiche, l’innocenza perduta dell’America tra i fantasmi di Hiroshima e la corsa degli armamenti, le presunte ombre rosse dei comunisti e gli inganni del potere, la possibile apocalisse, il tutto in tre ore di sfida narrativa e visuale.
Oppenheimer, tre film in uno
Praticamente, tanto per cominciare, Oppenheimer è tre film in uno.
Il primo racconta il tormento del geniale fisico ebreo di origine tedesca che con entusiasmo e pure un tocco di arroganza accetta di essere messo a capo del Progetto Manhattan: è assolutamente convinto che bisogna arrivare primi a costruire l’atomica, prima che ci arrivino i nazisti, con i quali la fine del mondo è assicurata se avranno a disposizione un ordigno nucleare. Nessun dubbio: si tratta di fermare Hitler, si tratta di impedirgli di avere il potere di mettere fine alla vita del pianeta.
Nel frattempo però il Terzo Reich viene sconfitto, collassa: ma il programma atomico rimane in piedi con lo scopo di mettere in ginocchio il Giappone e terminare definitivamente il conflitto mondiale. Ed è qui che affiorano i primi dubbi dello scienziato, l’idea che forse sarebbe giusto avvisare il Sol Levante, si cominciano a fare i primi conteggi dei possibili morti (saranno molti di più), si scelgono Hiroshima e Nagasaki come obiettivi, si comincia a temere la corsa nucleare dei sovietici. “Sento di avere le mani sporche di sangue”, dirà Oppenheimer al presidente Truman (un maestoso e terribile Gary Oldman). Il capo della Casa Bianca gli tende sarcasticamente un fazzoletto e gli dice: “Ai giapponesi non interessa un cazzo chi ha costruito la bomba. A loro importa chi l’ha lanciata. E quello sono io”.
Il secondo film nel film parla dell’ambiguità di Oppenheimer. Nessuno capisce fino in fondo cosa pensi davvero Oppenheimer. È stato comunista, non lo è stato, crede nella bomba o ne ha paura, ama sua moglie (una sofferente Emily Blunt) o l’attivista di sinistra Jean Tatlock (una torrida Florence Pugh)? Sospetta davvero di essere un “distruttore di mondi” oppure pensa di lavorare per la pace?
A suggerire le risposte è il volto di Cillian Murphy, da giovane, nella mezza età, da anziano: angosciato, occhi spalancati, fragile eppure tostissimo capo scientifico del Progetto Manhattan, costruttore della bomba definitiva, inventore della città di Los Alamos, costruita in mezzo al New Mexico perché quello è il luogo che lui, figlio di ebrei tedeschi emigrati nel 1888, ama di più al mondo. In questo viaggio nella mente di Oppenheimer trovano posto anche le sue visioni apocalittiche, le immagini che come lampi arrivano dai suoi stessi abissi e si imprimono sul grande schermo cinematografico, le ardue descrizioni di cose incredibilmente difficili come i principi della meccanica quantistica ed al tempo stesso le figure della vertigine che provocano.
La vendetta dell’America
Poi c’è il terzo film. E qui siamo ad una (doppia, peraltro) pellicola processuale che narra di come l’America si sia paradossalmente vendicata di Oppenheimer: sull’onda del maccartismo e con la solita complicità dell’Fbi di J. Edgar Hoover, il padre dell’atomica arrivò persino a subire l’accusa di aver fatto la spia per i sovietici. Così fu dissezionato il suo passato di simpatizzante della sinistra, ed il fisico venne sottoposto a interrogatori in piena regola, anche sulla sua relazione con la comunista Jean Tatlock (più di una volta Nolan espone un Cillian Oppenheimer nudo), le sue frequentazioni e scelte scavate fin nel dettaglio più recondito: è il potere che cerca di arginare chi rischiava di averne troppo per conto suo.
E’ che Oppenheimer dopo il Trinity Test e Hiroshima era una specie di eroe d’America, e semplicemente non veniva tollerato il fatto che si esprimesse a favore di un controllo degli armamenti nucleari e contro una corsa al riarmo. “Il problema delle bombe atomiche è che una volta che ne hai usata una, continuerai ad produrne altre”, dice, più o meno, il fisico che l’aveva realizzata, l’atomica. Osteggiare il potere da una posizione di potere, questo il peccato imperdonabile.
E’ l’Oppenheimer-Prometeo, colui che aveva portato il fuoco agli uomini e per questo viene punito a vita, certo: ma qui l’ultima fatica del regista-culto di Interstellar e del Cavaliere oscuro è anche una infinita per quanto dolorosa elegia liberal sugli abusi dell’America maccartista, un po’ in bianco e nero, un po’ a colori, un po’ andando avanti e indietro nel tempo (marchio di fabbrica a casa Nolan). Interessante è che in quest’elegia Oppenheimer – angosciato, contraddittorio, dilaniato, impaurito com’è – non è certo un eroe senza ombre o dubbi.
Dal Requiem al cast ciclopico
Tanta roba, forse troppa, potrebbe pensare qualcuno: in effetti Oppenheimer è un immenso film-vortice, a tratti verbosissimo (specie nelle scene delle audizioni anti-Oppenheimer), con implicazioni politiche di comprensione non sempre immediata. È un film pieno di cose, compresa la poderosa colonna sonora di Ludwig Goransson che ad un certo punto – così ci è sembrato – arriva a citare il Requiem di Mozart, ed è un film dotato un cast ciclopico (che oltre a quelli che abbiamo già citato va da un incredibile Robert Downey Jr a Matt Damon, passando da Kenneth Branagh e Matthew Modine a Rami Malek, un inatteso Tom Conti nel ruolo di Einstein ed un notevolissimo quanto sulfureo Casey Affleck).
È, insomma, un film talmente immenso e talmente accumulato che a tratti sembra di essere finiti in un lunghissimo trailer, in una specie di videoclip fulmicotonico, per quanto realizzato da un maestro visionario e un po’ pericoloso come Nolan.
A quanto pare, realizzare opere-trailer che fagocitano tutto e tutti è un segno dei nostri tempi: quelli in cui l’apocalisse nucleare – che risuona potente nell’epoca delle tanti apocalissi, cominciando da quelle climatiche – al cinema viene associata ad una bambola rosa shocking di nome Barbie. D’altronde, come cantavano profeticamente i Rem, oltre tre decadi fa, “it’s the end of the world as we know it… and I feel fine“. È la fine del mondo per come lo conoscevamo, e ci piace.
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