Sorprendente, ma vero, Mission: Impossible non è sempre stata una saga di Tom Cruise. Inizialmente è stato “un film di Brian De Palma”. Con Tom Cruise. Ancor prima, invece, una serie tv prodotta da Desilu Productions, fusa poi con Paramount Television. Senza Tom Cruise.
Se Ethan Hunt è entrato in simbiosi col suo interprete cinematografico in maniera totalizzante – o, sarebbe meglio dire, è avvenuto l’inverso -, dal 1966 al 1973 le spie impegnate nelle “missioni impossibili” dello show inventato da Bruce Geller erano varie e spesso eventuali, da Steven Hill nel ruolo di Dan Briggs al team guidato dal Jim Phelps di Peter Graves – nel primo Mission: Impossible sul grande schermo interpretato, invece, da Jon Voight.
La sezione della Impossible Mission Force in televisione non ha mai avuto una star accentratrice, come l’attore statunitense che è riuscito ad attirare su di sé i riflettori della saga, mettendo in secondo piano l’anima spy che la storia si carica sulle spalle. Perché è qui la vera, incredibile trasformazione di Mission: Impossible: il suo essere diventato da film spionistico a action, e da blockbuster action a film non solo con, ma anche “di” Tom Cruise.
Chissà chi avrebbe potuto prevedere il successo e la trasformazione di Mission: Impossible. E, soprattutto, se chi va a riempire le sale oggi è fan delle produzioni attuali tanto quanto di quelle di inizio duemila. Per non parlare del Mission: Impossible del 1996, apripista del filone cinematografico.
1996, c’era una volta il regista Brian De Palma
Un balzo indietro nel tempo vale la pena farlo, interpellando Brian De Palma, il cui tocco nell’opera anni novanta è inconfondibile, degno di Blow Out (1981) e Omicidio a luci rosse (1984), che l’hanno reso tra gli autori di spicco del genere thriller del cinema post-classico.
Maestro del cinema moderno e discepolo naturale di Hitchcock, è stato abile nel riversarne gli insegnamenti nel suo Mission: Impossible, ricalcando la scia del cinema fatto di intrighi e di inganni di Sir Alfred, da Il sospetto (1941) a L’uomo che sapeva troppo (1956) fino al pathos di Notorius – L’amante perduta (1946).
De Palma infonde anche in Mission: Impossible il suo gusto per il torbido e l’imbroglio, lo stesso su cui il suo Scarface (1983) ha innalzato il proprio culto, allontanandosi dalla canonicità gangster dell’originale di Howard Hawks degli anni ’30 diventato quasi l’unico e solo narratore delle gesta di Tony Montana (nel film del ’32 peraltro era Antonio “Tony” Camonte, interpretato da Paul Muni).
L’inizio del film è paradigmatico. Superata la scena sull’aereo in cui a Ethan Hunt viene affidata la prima missione, Mission: Impossible prosegue per una lunga sequenza a Praga avvolta da nebbia e sguardi. Cunicoli e silenzi.
È proprio il silenzio che, ad oggi, stupisce a confronto con l’esperienza immersiva deIl’IMAX e del dolby surround. Lo stile, così marcatamente riconoscibile di De Palma, in contrapposizione all’omologazione di un pur bravissimo Christopher McQuarrie, alle dipendenze del suo attore-produttore e praticamente regista tutelare del più recente Cruise universe (di 5 film, gli ultimi tre sono MI e uno è Jack Reacher).
Mission: Impossible, ma come è cominciata?
Le esplosioni su monumenti e ponti – comunque già presenti dal primo film – hanno preso sempre più spazio nella saga, tralasciando i sotterfugi nascosti e i piani taciti del ’96, che rendono il primo capitolo una mosca bianca.
Mission: Impossible del 1996 era un film di Brian De Palma. Un film spy action, sì, ma d’autore. Il fascino per il pericolo era il suo, l’irrequietezza dei personaggi pure, e questo non impediva a un elicottero si andava a schiantare contro un treno all’interno di una galleria nel finale del film. L’atmosfera, essenziale in ogni opera thriller/spionistica, viene sostituita nei decenni da altre prodezze più tecniche che artistiche, inappuntabili nella loro ricerca di intrattenimento e spettacolo ma che non lasciano spazio all’immaginario, al rischio, alla visione che ha un grande autore.
Chiamando per il secondo progetto l’amante degli stunt John Woo, si stabilisce un tono agli antipodi del precedente film già con la visione di Ethan Hunt/Tom Cruise appeso per la parete rocciosa rossa dello Utah in apertura. E per il divo nel 2000 comincia la corsa alle acrobazie più pazze mai compiute al cinema, stabilendo il nuovo tenore che avrebbe avuto la saga. Senza più bisogno – anzi, voglia – di controfigure.
Un cominciare a spingersi in funambolismi pirotecnici che per Mission: Impossible – Dead Reckoning – Parte uno lo sostituiscono definitivamente al direttore d’orchestra McQuarrie. È noto il video del backstage in cui, per ben sei volte, Cruise si trova in sella a una motocicletta con cui si butta direttamente nella gola minacciosa di una catena montuosa. Sei volte, una più fuori di testa dell’altra, sempre più terribile per i nervi di McQuarrie, che impotente non può che guardare dal monitor il suo attore-stella fare del cinema il suo parco giochi.
Il marketing per il film? Non ne parliamo. Con Tom Cruise che invita il pubblico ad andare a vedere la settima pellicola della saga lanciandosi da un aereo – in attesa della Parte Due il prossimo anno. Forse, però, tutto questo, in verità, si poteva immaginare.
Fu proprio Tom Cruise, nei lontani anni novanta, a convincere Paramount Pictures a investire in Mission: Impossible. Lui, che della serie tv era fan. Paramount mise 80 milioni di dollari, Cruise divenne produttore del film insieme alla socia Paula Wagner. Il desiderio di diventare spia si realizza. E, il resto, è storia. In qualche modo, anche del cinema.
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