Questo è un articolo sull’ironia. Anzi no: è un testo sui supereroi, troppo forti (il troppo stroppia, diceva la zia Gina), troppo potenti. Anzi: è un testo sui supereroi ultrapotenti che sono pure ironici. Oltre a volare, sprigionare raggi d’energia dalle mani e talvolta dagli occhi, essere di una forza universale ed essere capaci di autoteletrasportarsi qua e là, adesso dovrebbero anche far ridere. Oddio, alcuni avevano un certo senso dell’umorismo anche prima, ma tutto sommato in proporzioni accettabili, data la gravità del loro ruolo, che è sempre quello di salvare il mondo (o svariati mondi, a seconda dei casi). Sempre più metafisici (mai vista tanta fisica quantistica al cinema come in questi mesi, tra buchi neri spazio-temporali, mutazioni sub-atomiche e timeline impazzite), con quel che ne deriva in termini filosofici, i supereroi stanno finalmente conoscendo la loro prima vera crisi d’identità. Una devastante crisi d’identità, aggravata anziché alleggerita dallo sproporzionato ricorso all’umorismo. Ebbene sì, stiamo parlando di The Marvels.
Che, appena uscito nelle sale, sta già passando alla storia come maggiore insuccesso al botteghino nella storia della Marvel (persino in Cina, il che è tutto dire. E pure in Italia, dov’è attualmente sbaragliato dal film di Paola Cortellesi). Una storia che corre veloce, come d’altronde ci si aspetta dai supereroi: fino a poco tempo fa ogni prodotto proveniente dal Marvel Cinematic Universe era un super-successo certo. Da Iron Man a Spider Man agli Avengers ai Guardiani della Galassia, era un universo in perpetua espansione: il colpo di genio della Marvel era stato quelli di inventare storie e personaggi capaci di connettersi l’uno all’altro potenzialmente all’infinito. Così nascono e crescono le saghe (lo sapevano già gli antichi), proprio come nascono e crescono le galassie. All’infinito?
No, appunto. I confini ultimi forse sono stati raggiunti. Dicevamo The Marvels. Qui abbiamo Captain Marvel, interpretata da Brie Larson, che per una serie di circostanze subatomico-spaziali, è già di per sé l’essere più potente del mondo (occhio, in realtà forse ora il più potente è Loki, il dio norreno prestato alla supereroitudine galoppante, ora fascinosamente trapiantato in un retro-futurismo quasi wesandersiano nei colori chiaramente debitori dei mondi alternativi di quel vecchio genio pazzo che rispondeva al nome di Philip K. Dick). Troppa responsabilità, essere così potenti.
E allora è necessario andare avanti with a little help from my friends, come cantavano i Beatles (anche loro ormai in volo tra diverse timeline, come dimostra la loro “vera ultima canzone”, Now and Then, suonata dai vivi insieme ai morti in tre fasce temporali diverse), e dunque ecco piombare (letteralmente) da una serie tv un’altra signorina Marvel, peraltro originaria del Pakistan, nonché una nipote-non-nipote che pure ha acquisito dei super-poteri (per vie misteriose e poco comprensibili, peraltro).
E qui casca l’asino. Dopo aver visto combattere un numero sempre più elevato di supereroi contro un migliaio di varianti del male assoluto (se ogni volta è il male assoluto, forse non è poi tanto assoluto), mischiando anche generi cinematografici diversi (dalla tragedia tecnologica al dramma adolescenziale al para-western in stile Mucchio Selvaggio), dopo aver superato persino l’estinzione momentanea di milioni di persone attraverso il cosiddetto blip, mentre finanche i rapporti personali tra gli stessi supereroi venivano scandagliati in ogni dove, così come la relazione con gli anni che passano e l’età si congelava e si scongelava alla bisogna (Captain America), dopo aver inventato superpoteri sempre più bizzarri e aver affrontato qualsiasi dimensione familiare (dagli zii di Spider-Man al complesso edipico delle figlie di Thanos, il mega-ultra-cattivo che chissà aveva un problema serio con la demografia universale), forse semplicemente la Marvel ha toccato con mano l’ultima frontiera, le sue Colonne d’Ercole, quel luogo oltre il quale non si può più andare, quello che secondo gli antichi romani era hic sunt leones, il limite estremo del mondo conosciuto.
Sì, certo, ovvio, la Marvel ha inventato non solo una multi-saga, ma un nuovo genere cinematografico che è un frullato di mille generi, una sorta di narrazione cinematica all’ennesima potenza, una sorta di fantascienza che per un po’ ha offerto l’illusione di essere una nuova narrazione filosofica sulla natura umana e le sue domande fondamentali (il tempo, lo spazio, chi siamo, cosa siamo, dove andiamo, la perdita, l’io infinito, la divinità, la morte, la perdita, il futuro): ma se a forza di moltiplicare gli ingredienti il piatto ricco mi ci ficco fosse impazzito?
Insomma, forse anche il fan più incallito della Marvel comincia a sentire un tantinello di stanchezza (e probabilmente lo stesso vale per l’universo Star Wars, ma di questo forse parleremo in un altro pezzo). Come insegnano Mozart e Beethoven, non puoi montare un crescendo sull’altro all’infinito: finiscono per annullarsi reciprocamente, un po’ come accade nella notte in cui tutte le mucche sono nere (questa la diceva Hegel, per la verità).
Oppure, questo lo diceva più prosaicamente la solita zia Gina, è come invitare ad una cena dove ci sono solo bistecche. Per quanto ti piaccia la bistecca, alla terza non ne puoi più. Non ci credi più, il palato si ottunde. E per appassionarsi fino in un fondo ad una storia, un po’ ci devi credere: il fascino di ogni racconto d’invenzione è tutto lì, più una storia è incredibile più è importante che ci si creda un po’. La sospensione dell'(in)credulità è la legge fondamentale del cinema del nuovo millennio, la regola numero uno, la sua colonna portante. Altrimenti il miracolo del transfert psichico ed emotivo che è necessario allo spettatore per farsi trasportare dalla fabula ed identificarsi non ha alcuna possibilità di realizzarsi.
In The Marvels, diretto con simpatia e competenza da Nia Da Costa, accade esattamente questo: non ci credi più. Ed è venuta meno la sorpresa: tu, spettatore, sei rodatissimo, quello che accade sullo schermo, te lo aspetti, minuto per minuto. E c’è un aggravante: l’ironia. Troppe battute, troppe faccette simpatiche, persino disegni fumettosi e allegre canzoni da musical: simpaticissimo, il tutto, ma sono ingredienti che aumentano la distanza dello spettatore verso quel che accade sul grande schermo, non la diminuiscono. Non vedi più Captain Marvel dominare l’universo in un impalpabile equilibrio tra tragedia ed epos collettivo (Shakespeare docet), vedi Brie Larson divertirsi su un set cinematografico talmente artefatto da sembrare vuoto. Il miracolo, l’incanto, si è spezzato. Il botteghino piange. Amen.
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