“Doveva essere il mio film facile e invece è diventato complicatissimo” racconta a THR Roma Irene Dorigiotti parlando di Across, documentario presentato alle Notti Veneziane delle Giornate degli Autori. La regista più giovane della sezione che approfittando dell’esposizione della Sindone a Torino, parte alla ricerca di un percorso religioso.
Inizia un viaggio fatto di incontri giocosi e piccole rivelazioni, un vero e proprio road movie spirituale. Eppure, la ricerca di Irene è inquieta, le sue domande non sembrano trovare risposta, fino a quando la realtà diviene un universo poetico. Il sincretismo e il vociare del Messico, il caos del Vietnam e i Templi di Angkor Wat in Cambogia. Irene si allontana dalla religione per entrare nel sacro.
Lei è la regista più giovane della sezione Notti Veneziane. Come nasce l’idea del suo documentario?
Quasi per gioco. Ero stata chiamata a fare un film collettivo sulla Sindone. Ma non riuscivo a stare dentro il Duomo di Torino più di venti minuti. E lì vedevo che c’erano tanti scout che andavano e venivano. Ho chiamato mia madre e le ho chiesto se mi portava l’uniforme scout. La stessa di quando avevo 18 anni. La prima cosa miracolosa è che ci stavo ancora dentro (ride, ndr).
E poi cos’è successo?
Con il montatore la notte vedevamo i girati per avere un confronto. E una sera mi dice: “Ma secondo te chi è il narratore di questa storia? È lo scout. Non lo vedi che è ovvio?”. E da lì è cambiato anche il coinvolgimento. All’inizio non volevo minimamente stare dentro il film, però poi ho capito che le domande che facevo e che facevano gli altri erano domande troppo grandi per non farmele direttamente.
Domande molto grandi, ma anche domande molto intime.
Avendo studiato antropologia e filosofia uno le domande se le pone amplificandole! Però volevo anche rimanere molto semplice. Porre piccole domande che chiunque può essersi fatto nella sua vita. Senza troppe pretese. Anche perché di solito se si parla di un film sulla religione o sul sacro, ci si può anche spaventare. L’idea era di tenerla anche un po’ sul gioco, con la leggerezza di non avere una risposta a certe domande.
Un documentario come Across ricco di sequenze e toni differenti come si affronta al montaggio?
Ha avuto diverse fasi. Ogni volta che giravo qualcosa, rimontavo da sola. Fino a quando ho vinto Solinas. A quel punto ho preparato 9 minuti da far vedere alla commissione. Poi ho conosciuto Enrico Giovannone, il mio montatore. Nel 2018 abbiamo montato il primo teaser, poi sono stata in Vietnam un mese e mezzo e sono tornata con moltissimo di girato. In piena pandemia io e Enrico siamo rimasti chiusi due o tre mesi a montare tutto quanto e cercare di dare una struttura che avesse un senso. Ne avevamo già una molto rigida ma anche molto malleabile in base alle situazioni che accadevano. Per esempio in Vietnam non sarei dovuta andare. E nel dubbio ho portato l’uniforme scout (ride, ndr). Per anni, tutte le volte che andavo da qualche parte, la portavo sempre con me insieme a una camera.
Ha iniziato a girare nel 2015. Ha mai provato un senso di impazienza, la voglia di chiudere per vedere il lavoro finito? Oppure la natura quasi episodica del documentario aveva bisogno di un respiro così ampio?
Sì, perché sono cresciuta tantissimo. A volte dico che Across è un romanzo di formazione. Credo che se lo avessi finito in due o tre anni sarebbe stato un altro film. Con tutte le persone con le quali ho collaborato abbiamo maturato uno sguardo. Doveva essere il mio film facile e invece è diventato complicatissimo (ride, ndr). Anche se molto sorprendente!
Across chiede tanto allo spettatore. Cosa spera che il pubblico prenda dal film?
Spero si diverta un pochino. Abbiamo fatto un film molto libero, però siamo stati anche molto certosini nel creare certe cose. Mi auguro che possano porsi delle domande, emozionarsi, stare dalla nostra parte. Ci abbiamo messo tutto il cuore che potevamo.
Nel suo documentario affronta in qualche modo anche una crisi spirituale. Ma crede che una crisi possa essere anche un’opportunità positiva?
Non è solo una crisi spirituale. Ma è anche una crisi del modo in cui viviamo e sulla generazione dei millennial da sempre molto carica di aspettative. Bisogna dover essere sempre al meglio, però poi poche persone ti chiedono se sei felice nelle tue giornate.
Sta lavorando ad altri due documentari, World of Imagination e Cercatori di colore. Di cosa si tratta?
Sono due progetti completamente diversi. Cercatori di colore sarà più un film di finzione che un documentario. Sono finita sulla blacklist del Ruanda perché parlo di un gruppo di artisti che hanno realizzato un traffico di colori per poter dipingere. Mentre World of Imagination lo sto facendo con Simone Rosset che ha lavorato in Across per l’animazione. È un progetto che racconta La Cavalleria, un luogo di Torino occupato da artisti. L’idea è quella di trasfigurare la sua storia con Le città invisibili di Italo Calvino.
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