È stata una tappa importante nella storia degli studi americani sul razzismo: negli anni ’40 Kenneth e Mamie Clark iniziarono ad analizzare le ricadute psicologiche della segregazione sui bambini afroamericani. I due psicologi hanno condotto una serie di esperimenti noti come “i test delle bambole”, in cui chiedevano a centinaia di bambini, di età compresa tra i tre e i sette anni, la loro opinione su bambole con diversi colori della pelle.
L’aspetto più noto e sconcertante del test – che ha giocato un ruolo di rilievo nella sentenza della Corte Suprema “Brown v. Board of Education” – è stata la scoperta relativa alle preferenze espresse dai bambini. Dopo aver identificato le bambole nere come “cattive” e quelle bianche come “buone”, la maggior parte dei bambini afroamericani ha detto di preferire le seconde alle prime. La regista Lagueria Davis fa spesso riferimento a quel test, e ai suoi risultati, nel suo documentario – potente, ricco di informazioni anche se discontinuo – Black Barbie: A Documentary. L’esperimento è alla base del film, che racconta la storia della prima bambola Barbie afroamericana di Mattel per poi allargare lo sguardo al significato culturale dei giocattoli in America e al loro rapporto con gli stereotipi.
Da Christie a Black Barbie
Black Barbie si apre con una confessione: prima di trasferirsi a Los Angeles nel 2011 per inseguire il sogno del cinema, la regista odiava le bambole. Fu solo quando si trasferì dalla zia Beulah Mitchell, un’anziana collezionatrice di giocattoli e storica impiegata della Mattel, che iniziò ad apprezzarle. E questo cambio di prospettiva, nel bene e nel male, è il pretesto da cui parte il film.
L’approccio del documentario è il suo punto di forza. La regista non giudica il tema e non mette in imbarazzo gli spettatori nell’affrontare un argomento complesso come il significato socioculturale delle bambole: un progetto più tecnico avrebbe forse scartato come superflue molte delle sue domande, rivolte a esperti e appassionati. Attraverso l’intervista alla zia Mitchell, che racconta la storia della Mattel, Davis dà corpo all’emozione provata da una ragazza afroamericana, cresciuta all’ombra delle leggi Jim Crow sulla segregazione, che vede per la prima volta una bambola nera.
Con la dottoressa Patricia Turner, studiosa della storia afroamericana e preside dell’UCLA College, Davis affronta le importanti ricadute sociali – ancora molto attuali – dello studio condotto dai Clark. Con la storica Yolanda Hester, infine, il film offre una breve panoramica su numerose aziende di bambole – tra cui l’afroamericana Shindana Toys – per concentrarsi sull’impatto culturale della “Black Barbie” di Mattel. Una delle prime versioni di Black Barbie è stata Christie, un’amica di Barbie, uscita alla fine degli anni Sessanta. La prima bambola nera col nome ufficiale di Barbie sarebbe arrivata un decennio dopo, creata da Kitty Black Perkins: Davis intervista sia sua zia che Perkins sulla storia della creazione della bambola e sull’importanza di attribuirle il nome di “Barbie”.
Bambole sempre più inclusive
Il documentario passa poi a intervistare un variegato gruppo di scrittori, attori (tra cui Gabourey Sidibe), storici, intellettuali, psicologi e membri della famiglia di Davis per sondare le reazioni suscitate nel pubblico dalla Black Barbie nel corso degli anni. Per la maggior parte degli intervistati la bambola è motivo di orgoglio: anche i più scettici ne ammettono l’importanza. A intervenire è anche la stessa Mattel, attraverso un dirigente intervistato sulla progressiva apertura della società all’inclusione.
Il film si inceppa però quando Davis prova ad allargare il discorso, trasformando una storia personale in uno studio sociologico. Replica il test delle bambole mettendolo in scena per il film, interrogando un numeroso gruppo di bambini sulla recente linea “inclusiva” delle Barbie. I ragazzi sono molto pragmatici, e non si aspettano certo che un’azienda possa soddisfare le loro esigenze o rispecchiarne il mondo. Sono interviste interessanti, cui il documentario tuttavia dà una lettura piuttosto scoraggiante. Eppure sono interventi pieni di speranza, che invitano le aziende a sforzarsi ancora di più per centrare i bisogni delle nuove generazioni (sarà interessante, in questo contesto, osservare come il prossimo film su Barbie di Greta Gerwig si comporterà in termini di diversità e inclusione).
Black Barbie non dà abbastanza spazio alle conversazioni con questi bambini. Convoglia il finale in una sorta di tavola rotonda tra adulti, sui tentativi più recenti di Mattel di restare “sul pezzo”. Si parla dei vlog di Barbie a tema razzismo, pubblicati al culmine delle proteste del 2020, e dei deboli tentativi di costruire una narrazione convincente per Black Barbie. Argomenti certamente interessanti e necessari, oltre che ricchi di preziose informazioni, ma concentrati in fretta in un arco temporale limitato: un sovraccarico di informazioni che finisce per appesantire il documentario, cui una messa a fuoco più nitida avrebbe permesso di spiccare davvero il volo.
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