Brooke Shields ha accettato di partecipare a un documentario sulla sua vita e la sua carriera non perché si parlasse di lei ma perché si potesse parlare attraverso di lei. Per discutere della sessualizzazione delle giovani ragazze. Oggi i documentari sulle vite delle persone famose non mancano ma Pretty Baby: Brooke Shields, presentato per la prima volta il 20 gennaio al Sundance Film Festival, aspira a essere molto più di una semplice retrospettiva della sua carriera.”Non mi interessano i problemi delle persone famose. Quello che mi importa è come la fama possa amplificare e potenziare questioni in cui ci si può identificare”, dice la regista Lana Wilson, che ha diretto anche il documentario Netflix di Taylor Swift, Miss Americana. “La vita di Brooke è stata unica, ma la sua esperienza di donna in America è molto comune”.
Il documentario, che dopo il suo debutto al Sundance è uscito sulla piattaforma Hulu, riprende il suo nome dal film di Louis Malle del 1978 che, sebbene acclamato, fu anche molto criticato per aver messo in scena la prostituzione minorile e una Brooke Shields preadolescente nuda. Il lavoro d’archivio del documentario mostra i titoli di giornale che esprimevano lo stupore del momento, “sono scioccato dalla bambina che fa impazzire gli uomini” si legge (all’epoca Shields aveva 9 anni) e poi una serie di filmati di conduttori maschi che interrogano Shields sulla sua sessualità dopo Pretty Baby. Il tutto intervallato da professori universitari e sociologi che offrono un contesto storico e culturale sull’oggettivazione delle ragazze. “Mi è sembrato un modo molto più intelligente e interessante di affrontare una storia – una persona, un viaggio – attraverso la lente del cambiamento”, dice Shields.
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Pretty Baby, che annovera Alexandra Wentworth e George Stephanopoulos tra i produttori, documenta tutta la vita di Shields, dal rapporto con la madre, Teri Shields, all’amicizia con Michael Jackson, a una carriera pluridecennale in cui si annoverano pietre miliari come The Blue Lagoon del 1980, le iconiche pubblicità di Calvin Klein e la televisione con la sitcom Suddenly Susan. Per la prima volta, nel documentario, l’attrice sceglie di parlare di un’aggressione sessuale da parte di un professionista di Hollywood che rimane senza nome, in una stanza d’albergo quando lei aveva vent’anni, dopo essersi laureata all’Università di Princeton, e stava attraversando una fase di stallo della sua carriera. “Per me è stato molto stimolante guardare il documentario completo, mi ha fatto sentire orgogliosa di quello che sono e di come sono cresciuta”, dice Shields.
Perché è stato il momento giusto per realizzare un documentario?
Sono stata contattata molte volte ma non ero ancora la persona giusta. Sembrava prematuro o che stessero approcciando alla mia storia seguendo una direzione sbagliata. Questa direzione invece li ha fatti uscire dalla sfera della semplice biografia.
Sapevi che cosa volevi comunicare agli spettatori del documentario?
No. Ho iniziato con una grande apertura mentale. Non sono la regista o la produttrice. Mi affido all’aspetto creativo e intellettuale che il team porta con sé. Ho lasciato loro spazio. Ho trascorso momenti straordinari solo parlando e condividendo gli archivi che avevo finito di digitalizzare. Mia madre ha conservato tutto, quindi il materiale risale a molto tempo fa. Io c’ero ai tempi delle bobine di mezzo centimetro, Betamax. Quando mi hanno proposto un documentario, ho detto subito: “Ho a disposizione dei materiali”. (Ride).
Hai orientato Lana e il team in una certa direzione riguardo al lavoro archivistico?
Ho consegnato gli archivi a Lana e mi sono allontanata. “La tua narrazione e il tuo punto di vista sono molto importanti”, le ho detto. Io sono un mezzo di comunicazione per una conversazione più ampia. Se entrassi e dicessi: “Fammi vedere quell’intervista”, allora si tratterebbe solo di me e del mio ego. Questo progetto non sarebbe stato una retrospettiva di tutti i momenti principali della mia carriera ma qualcosa di più grande. Volevo consegnare gli archivi e dire: “La storia partirà da te che guardi questo archivio e che tu, come regista, vorrai raccontare. Non spetta a me decidere”.
Hai detto di vederti come un mezzo di comunicazione per una conversazione più ampia. Qual è questa conversazione?
Una conversazione sulla sessualizzazione delle giovani donne. Io stessa sono stata al centro di quella tempesta in modi diversi nel corso degli anni. Sono stata parte della conversazione – o forse nemmeno parte della conversazione, ma dell’attenzione – e quella stessa narrazione nel tempo è cambiata, a seconda delle influenze esterne e dell’epoca. Ora sono madre di due giovani donne e oggi la sessualità è molto diversa da quella di allora. Anzi, quando ero bambina, c’era ben poco da dire a riguardo.
La relazione con tua madre è un filo conduttore importante in Pretty Baby. Te lo aspettavi?
Sentivo che mia madre sarebbe potuta essere al centro, non mi ha sorpreso. (La madre di Shields è morta nel 2012 –ndr). È sempre stata una figura molto controversa ma anche fondamentale nella mia vita. L’essere stata così coinvolta nella mia relazione con mia madre, l’aver scritto un libro su di lei e l’essere stata spesso avvicinata dalla stampa, soprattutto in modo negativo, come una giovane che cercava di difendere la madre, è stato un filo conduttore per gran parte della mia vita. E questo filo continua nella mia relazione con le mie figlie. Quello che mi ha sollevato è che non c’è stato un giudizio. L’amore, anche attraverso la complessità e la difficoltà, è stato presentato in modo autentico, così che le persone potessero vederlo e sentirlo come volevano loro oppure usarlo come mezzo per capire il proprio rapporto con la madre.
Qual è stata la motivazione alla base della scelta di parlare per la prima volta dell’aggressione sessuale che hai subito?
Non sapevo se, quando o se mai avrei affrontato l’argomento. Ci sono voluti molti anni di terapia per poterne parlare. Ho lavorato molto su questo e ho imparato a metabolizzarlo. Oggi possiamo parlare di queste cose in modo molto più aperto. Pensavo: sono arrivata qui e, come madre di due ragazze, spero che anche solo raccontando la mia esperienza, io possa diventare in qualche modo un’attivista. Sentivo di essere arrivata a un punto in cui potevo parlarne. Ci ho messo molto tempo.
Speri che chi ha una posizione di rilievo a Hollywood tragga qualcosa dalla condivisione della tua esperienza?
Non credo che sia compito mio cercare di influenzare chi detiene il potere ad Hollywood. Sono una donna, una madre, una persona che ha vissuto con la colpa di questo abuso per così tanto tempo da aver imparato come elaborarlo. Volevo condividere questa storia con altri uomini e donne che possono trovarsi in difficoltà e cercano di sopravvivere, nella speranza che la condivisione della mia storia possa aiutare gli altri.
Verso la fine del documentario, ti vediamo seduta a tavola con le tue due figlie (di 16 e 19 anni) a parlare di Pretty Baby e delle loro opinioni a riguardo. Gran parte della tua carriera è stata documentata, dibattuta e contestata, e questo documentario sicuramente porterà a ulteriori conversazioni.
Sono stata al centro di così tante parole per così tanti decenni. Ho imparato a mantenere fede alla mia verità e a comunicarla. Ci sono abituata. La conversazione a tavola mi ha sorpreso. Non era prevista. Ma non sono sicura che una conversazione di quel livello con le mie figlie si sarebbe verificata se questo documentario non ci fosse stato. Ascoltare il loro punto di vista, averle coinvolte come giovani donne, sentirle parlare di me come bambina e come madre, e stare insieme in quell’ambiente è stato commovente. Sono entusiasta di iniziare nuovi capitoli nella vita. E nonostante tutto, amo ancora essere in questa industria. È un dono essere entusiasta di quello che faccio. Non temo alcuna parte di questo documentario perché, per me, la storia è molto più grande. L’aggressione, su cui senza dubbio si concentreranno tutti, dura cinque minuti nel film ma c’è un’altra ora e 45 minuti. Sono orgogliosa di guardare al mio lavoro e dire: “Ho raggiunto questo obiettivo e ho continuato a imparare”. Sono ancora qui.
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