Su Carla Fracci sembra sia già stato raccontato tutto. Tuttavia, c’è ancora qualcosa da dire su questa ballerina eccezionale. Cosa si nasconde dietro tutte le interviste e gli aneddoti continuamente ripetuti? In che modo è diventata l’étoile che il mondo celebra ancora oggi? E come la sua esperienza può essere utile a tutti coloro che sognano di diventare artisti? È da qui che prende vita Codice Carla, il documentario scritto e diretto da Daniele Luchetti, uscito in sala in questi giorni per omaggiare la grande artista.
“Carla era una persona normale con accenti precisi di novità e di stravaganza. Era una persona che era presente senza fare rumore, ma nella danza ha fatto tanto rumore”, ci racconta Beppe Menegatti, marito e regista di tanti spettacoli della regina della danza. Rumore lo fece anche quando, durante una prima al Teatro dell’Opera di Roma, Carla Fracci si scagliò contro l’allora sindaco di Roma, reo di tagliare finanziamenti al corpo di ballo da lei diretto. “L’amore che lei aveva per l’insegnamento, per trasmettere la danza, le fece fare quel gesto clamoroso proprio contro Alemanno”, ricorda il marito.
Nel documentario si intrecciano rare interviste e immagini di repertorio con le testimonianze di Roberto Bolle, Jeremy Irons, Marina Abramovic, Carolyn Carlson, Eleonora Abbagnato, Alessandra Ferri, Enrico Rava, Chiara Bersani, Beppe e Francesco Menegatti, Luisa Graziadei, Vittoria Regina, Gaia Straccamore, Hanna Poikonen. Un film che mostra come Carla Fracci fosse molto più di una ballerina famosa. Era un’insegnante, un’attrice, un’interprete, una donna modesta e laboriosa. Ma cosa l’ha resa un’icona? Qual era il suo codice e qual è il codice di quegli artisti e performer che, col corpo, col movimento e con la musica, si confrontano ogni giorno?
Per rispondere a queste domande, Daniele Luchetti si concentra sulla vita dell’artista anziché sulla sua biografia cronologica, con l’obiettivo di ispirare i giovani attraverso un’analisi di quella straordinaria donna. Ad accompagnarci in questo percorso, tra danza e parole, le musiche degli Atoms For Peace edite da Thom Yorke e Sam Petts-Davies, con il frontman dei Radiohead a ricoprire anche il ruolo di music supervisor del film.
Luchetti, esiste un codice Carla?
Il film serve proprio ad indagare su questo. Qual è il codice che lega fra di loro tutti gli artisti, tutte le generazioni, tutte le discipline, tutti quelli che mettono loro stessi in scena a disposizione del pubblico? Si parte da un’osservazione: chiunque faccia il nostro lavoro si trova sempre a proprio agio con qualsiasi artista di qualsiasi disciplina, che siano musicisti, attori o artisti figurativi. Chissà, magari parliamo una lingua comune.
La risposta qual è?
Partendo da Carla Fracci e arrivando a Carla Fracci, questo film cerca di raccontare proprio il codice comune, facendo a lei delle domande a cui ho trovato risposta nei suoi archivi. Per le domande per le quali non avevo un suo contributo, ho cercato risposte chiedendo ad altri artisti che svolgono mestieri compatibili.
Qual è stato il criterio di scelta degli intervistati?
Ho fatto una wishlist dove c’erano esattamente gli artisti che poi hanno aderito. In primis Marina Abramovic, che ho sempre ammirato e voluto conoscere, perché la ritengo un’artista influente e anche molto pop, non solo di nicchia. Lei ha accettato di fare questa intervista proprio perché si parlava di argomenti compatibili con quello che lei sapeva. Non le ho chiesto la cronologia dell’opera di Carla Fracci, perché ovviamente non era di sua competenza, ma le ho chiesto cosa vuol dire rappresentare la morte. Questa è una domanda a cui voleva dare una risposta. Ho chiesto a Jeremy Irons cosa vuol dire quando un’emozione è allo stesso tempo consapevole e inconsapevole quando si è in scena. La risposta è molto interessante.
Ci sarà pure un fil rouge che lega l’étoile a queste persone?
Un comune denominatore dei personaggi intervistati è l’utilizzo che hanno fatto del proprio corpo, come manifesto. Come via per mostrare la loro arte. Una cosa illuminante che ha detto la coreografa Carolyn Carson è che nel momento in cui sei in scena tu non rappresenti niente, tu sei la forma. E la magia è esattamente questa, perché nel momento in cui tu sei in scena dimentichi te stesso. Sei la forma e rappresenti l’umanità intera, non sei più te stesso solamente. Questo per me è stato illuminante e, se accostato a tanti altri ragionamenti che vengono fatti o mostrati nel film, mi ha fatto capire quanto lo stare in scena non sia solamente gratificante per chi danza, per chi guarda, ma è proprio un contributo che viene dato al nostro essere umani e nella trasfigurazione possibile del nostro corpo in qualcosa d’altro.
Cosa le piacerebbe che suscitasse nel pubblico questo documentario?
Sarebbe meraviglioso se qualche vocazione saltasse fuori dopo la visione di questo film. Un attore, un danzatore, un coreografo, un regista. Questo film racconta la passione del lavorare con i corpi. Quanto è gratificante e meraviglioso raccontare delle storie attraverso i corpi.
Nel film ha inserito tanto del privato di Carla Fracci.
Oggi i video su Carla Fracci mentre danza si possono recuperare su YouTube, è molto semplice. In streaming trovi molti più balletti di quelli che avrei potuto rappresentare. Quindi mi sono detto: chi è interessato a vedersi un balletto integrale lo può vedere su qualsiasi piattaforma. Ho cercato di inserire non solo le cose straordinarie che potevano evitare di spezzare il ritmo, ma anche molto di inedito. Vedere una Carla inedita mentre mangia una mela, mentre balla in discoteca o mentre si fa un massaggio mi sembrava più interessante piuttosto che vedere un balletto integralmente.
È stata dura la ricerca di repertorio?
Si, la parte archivistica è stata molto complessa. Tutti questi film si portano dietro un lavoro di archivio importante, però stavolta veramente è stata complicata. Anche perché, nonostante fosse un’artista di primo livello, di primo piano, in Italia non esistono archivi sistematici sulla sua opera e non esiste neanche così tanto materiale che rappresenti antologicamente tutte le versioni di quel determinato balletto. C’è relativamente poco.
C’è una frase o un gesto di Carla Fracci che l’ha colpita particolarmente?
Quando dice: “Noi ballerine non siamo solo gambe, non siamo solo muscoli”. Mi piace molto perché è esattamente l’opposto di quello che uno pensa. Di solito si guarda proprio alle gambe, ai muscoli, all’allenamento. In realtà, la priorità è nel cervello e poi nell’emozione successivamente, e Carla lo dice così chiaramente.
Perché ha avuto tanto successo?
Per tante ragioni. La prima ragione per cui ce l’ha fatta è che lei era perfettamente sincrona con i propri tempi, essendo donna del popolo nel momento in cui il paese cresceva, nell’Italia del boom. Lei era una in linea con i suoi tempi e anche con i desideri e i bisogni della nostra nazione e dell’Europa. Ovviamente aveva talento, ma questo va da sé. Ma c’è anche il fatto che lei si sia aperta per prima alla televisione. È stata abbastanza velocemente una star della tv: a 19 anni era già sulla Bbc con un paio di cose meravigliose che ho messo nel documentario. Non ha mai negato il fatto che per fare arrivare la danza a tutti si dovessero utilizzare anche dei veicoli inconsueti come il teatro tenda. Quindi è diventata molto rapidamente un’icona, proprio perché erano non solo gli anni suoi e gli anni del boom economico, ma anche gli anni della televisione.
È stata anche quella che ha sdoganato il balletto, che fino allora era considerato d’élite?
Esatto! Lei ha ballato con le Kessler, ha ballato con Heather Parisi, non ha mai avuto la puzza sotto il naso. Non pensava di togliere qualcosa dal suo lavoro se una sera ballava per divertimento in uno show televisivo, semplicemente più gente andava a vederla al teatro. Chissà quanti ci sono andati solo perché l’hanno vista in tv. Che poi, è lo stesso che fa Roberto Bolle oggi. Chissà quanti hanno iniziato a danzare perché li hanno visti in televisione.
È anche la donna che ha avuto un duro scontro con Alemanno che non finanziava il balletto.
Carla Fracci era una donna politica, era una cittadina profondamente inserita dentro l’attualità politica. Non era questa personcina minuta vestita di bianco, eterea. Era una donna con i muscoli, era la Margaret Thatcher della danza. E per fortuna. Non solo ha operato culturalmente, ma anche politicamente, e molto più praticamente proprio sui finanziamenti, sulle risorse per il corpo di ballo del Teatro dell’Opera di Roma.
È cambiato qualcosa da allora?
Sì, decisamente. Io penso che la presenza della danza nei media sia più importante oggi di allora. Questo è un momento in cui lo spettacolo del vivo sta avendo un buon riscontro di pubblico, anche perché dopo il Covid, secondo me, prima ancora di tornare al cinema, la gente è tornata a vedere i live, perché ha bisogno di contatto umano, di relazione con chi sta in scena. Il calore che viene da uno show dal vivo è tutta un’altra storia. Adesso, per fortuna, si sta tornado anche al cinema. È come se l’azzeramento culturale che la pandemia sembrava portare in realtà ci abbia fatto ripartire dai fondamentali.
Prima Raffaella Carrà, adesso Carla Fracci. Si sta specializzando in questo genere di documentari?
È semplicemente un caso. Sono arrivati anche in periodi abbastanza diversi, a un anno di distanza, anche se sono usciti quasi insieme. Quello su Raffaella è un kolossal, abbastanza classico ma divertentissimo, mentre questo su Carla è più di nicchia.
L’uno non è conseguenza dell’altro?
Assolutamente no! È un caso totale. Mi sono trovato a raccontare due grandi icone della cultura italiana, una popolare e l’altra di cultura con la C maiuscola. Due donne eccezionali che rappresentano il nostro tempo in maniera sfaccettata. In certo senso hanno molto in comune, perché nei rispettivi campi sono due donne forti che alla fine si sono fatte da sole. Entrambe hanno rivoluzionato il costume. La cosa che hanno in comune oltre al loro essere autorevoli, manageriali, ispirate, è anche il fatto che il loro corpo è stato uno strumento di comunicazione fortissimo, non sessualizzato come una certa idea della donna avrebbe voluto. Un corpo che si esponeva, che raccontava delle storie, che trasmetteva divertimento, energia e mille altre cose.
Non c’è due senza tre. Quale altra donna le piacerebbe raccontare?
Senza dubbio Mina.
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