Chai Vasarhelyi e Jimmy Chin hanno raggiunto la cima delle montagne insieme a Alex Honnold, vincendo nel 2019 il Premio Oscar per il documentario Free Solo. Con un connubio tra il distacco analitico e un affetto graduale per il protagonista, i filmmaker erano riusciti a riportarne la “sfida estrema” – cita il sottotitolo nella versione italiana – dello scalatore professionista, restituendone il coraggio dell’impresa e il confronto con la natura. Era indubbio che il successivo lavoro sarebbe continuato sulla scia del legame tra uomo e ambiente, ampliandone il tema e moltiplicando anche i protagonisti, andando dal racconto di un solo individuo, all’amore tra due persone. In Wild Life: Una storia d’amore, dal 26 maggio su Disney+, Vasarhelyi e Chin raccontano la storia, dagli inizi fino alla dipartita, dell’imprenditore Douglas Tompkins, cofondatore e gestore delle aziende The North Face e Esprit, ma soprattutto ambientalista e filantropo.
Un investimento economico che Tompkins ha traslato anche a livello personale nelle sue cause in difesa dei territori, acquistando e conservando uno dei possedimenti diventati poi tra le più importanti donazioni da parte di un privato a un governo sudamericano.
Un racconto dell’american way of life all’inverso, come osservato nell’intervista a Kristine Tompkins, moglie del defunto Douglas. Wild Life: Una storia d’amore è il ritratto di una coppia che ha cercato di fare la differenza, tenendosi per mano. Un documentario che è un pezzo di quell’esistenza, un ponte per Kristine con cui ritrovare tutte le volte che vuole il compagno Doug.
Wild Life: Una storia d’amore è un reportage delle attività svolte da lei e Douglas nella carriera e nella vita privata, che esplora angoli intimi della vostra relazione. Cosa l’ha convinta a parlare davanti a una camera?
Quando Chai (Vasarhelyi) e Jimmy (Chin) hanno espresso il loro interesse nel realizzare un documentario su Doug, su di me e sulla nostra vita, sapevo che sarebbero state le uniche persone a cui avrei mai affidato la nostra storia. Mi fido di loro, hanno talento, oltre alla capacità di riscrivere gli eventi come fossero davvero delle narrazioni cinematografiche. Ho poi pensato che, quella del documentario, poteva essere un’idea per mostrare che chiunque può contribuire a salvaguardare il pianeta, a prescindere dai soldi che si hanno o dal posto da cui si viene. C’è solamente bisogno di prendere in mano la propria esistenza e lavorare per un ecosistema sano, in nome del nostro futuro.
Tra l’altro nel documentario dice che c’è stato un momento nella sua vita in cui si è detta: non posso restare a guardare, devo fare qualcosa per questo mondo. Come si trasforma un’idea simile, quasi utopica, in qualcosa di concreto, di reale?
Non credo sia un’idea utopica. Penso sia essenziale soffermarsi a capire come contribuire alla causa, anche perché non abbiamo molta altra scelta. È questo che ha sempre spinto Doug e me, insieme ai nostri team: la consapevolezza, che tu sia un imprenditore, uno scrittore o qualsiasi cittadino, di dover fare qualcosa, perché non c’è altra via d’uscita. Se non lo fai, metti a repentaglio la salute del futuro. La domanda “C’è da fare qualcosa?” è stata eliminata. Ora si è passati a: devo contribuire, ma come?
I temi che tocca sono particolarmente sensibili oggi, anche per l’opinione pubblica. Non era così ai tempi in cui lei e Douglas avete cominciato. Sente la differenza?
Per forza, tutti sanno che gli scienziati stanno annunciando un drastico cambio del clima mondiale da qui ai prossimi cinquant’anni. È inevitabile che, anche chi prima non ne era cosciente, oggi abbia capito cosa stia accadendo. Ciò che ha fatto Doug è stato prenderne coscienza prima, già negli anni Novanta, quando si è accorto che alcune specie stavano cominciando a scomparire. Tutto è iniziato osservando le foreste che venivano tagliate in Canada e negli Stati Uniti, passando poi per l’Europa, dove molte distese, ormai, sono solo piantagioni.
Pensa che, per questo motivo, nonostante la morte di suo marito proprio in un’attività a stretto contatto con la natura, il suo rapporto con la natura stessa sia cambiato?
Ho settantatré anni, ho avuto una vita affascinante e sento di essere sempre più a mio agio in luoghi davvero selvaggi. Non direi che il mio rapporto sia cambiato. A cambiare, semmai, è la mia ricerca di zone più ignote e complesse da attraversare.
Nel documentario viene introdotto il concetto di rewilding. Crede sia un argomento che diventerà più facile da incentivare?
È una pratica davvero semplice e che viene effettuata in tanti piccoli progetti. Sono stata nel Regno Unito, nel Sussex, nel sud di Londra. Era piena di foreste, con tantissimi campi riservati all’agricoltura. Lì ho assistito alla reintroduzione delle marmotte nel territorio. La gente sa bene che si tratta di un’attività utile e i giovani, che sentono vecchie storie, sanno che molti animali non abitano più diversi luoghi nel mondo, per questo cercano di rimediare.
Ha mai riflettuto sul fatto che lei e Douglas avete vissuto l’american dream, ma al contrario? Andando dal profitto al bisogno di tornare alle radici?
Dopo la Seconda Guerra Mondiale tutti potevano acquistare un frigorifero o un auto. Forse addirittura due. È ciò che sta accadendo di nuovo, ma allo stesso tempo ci si sta rendendo conto che quel sogno di possesso sta causando dei problemi. Così, il nuovo sogno americano, è un sogno globale, ed è molto più potente. Le persone stanno davvero lottando per il proprio domani. Ed è un obiettivo ben più solido che potrebbe permettere a tantissimi americani di vivere un’esistenza davvero moderna.
Considera Wild Life: Una storia d’amore un’altra maniera per rimanere in contatto con suo marito?
È certamente un modo per parlare di lui, di noi, personalmente. Mi ha messo più volte in collegamento con i sentimenti che ho provato il giorno della sua morte. Il documentario articola bene l’ossessione che abbiamo condiviso, trovare la maniera di rendere il mondo migliore, e insieme è il racconto di come ci siamo innamorati l’uno dell’altra. Due persone estreme che facevano qualcosa di estremo, di insolito. Vivere qualcosa del genere per venticinque anni è davvero pazzesco.
La vostra storia e il lavoro del documentario fanno saltare alla memoria un altro racconto del 2022, Fire of Love, non so se lo ha visto.
Sì, l’ho visto un mese fa. Ho provato una fortissima empatia per i due protagonisti (gli scienziati Katia e Maurice Krafft, ndr.). Era ovvio che il documentario a loro dedicato risultasse uno splendido lavoro. La loro vita è stata talmente bizzarra che era impossibile lasciasse indifferenti, partendo dal fatto che si sono incontrati in così giovane età e che abbiamo poi deciso di affrontare insieme tante avventure tra i vulcani. Chi altro lo farebbe? L’ho adorato. E sì, per un certo senso, posso capire perché le nostre storie possano sembrare simili.
THR Newsletter
Iscriviti per ricevere via email tutti gli aggiornamenti e le notizie di THR Roma