“Questo film è, tra virgolette, un po’ il mio ultimo documentario. Mi sto dedicando a un progetto di finzione che girerò a febbraio”. Il documentario in questione è Lonely, presentato in concorso ad Alice nella città, il suo regista Michele Pennetta. Quella del film è una coproduzione Italia – Svizzera, insieme a Close Up Films, Indyca, Rai Cinema e RSI Radiotelevisione svizzera SRG SSR che racconta la storia di Precious, una giovane nigeriana in perenne conflitto con la madre che decide di andarsene di casa per affermare un’indipendenza tanto prematura quanto pericolosa, e di Federico, ragazzo della stessa età con problemi di salute.
Il suo sogno è avere successo nella musica e lasciare il suo paese, dove nessuno crede in lui. Dal loro incontro nasce un legame fondato su segreti e progetti musicali. Insieme, ritrovano la speranza. Ma l’inseguimento di quel sogno comune si scontra con una dura realtà. La salute del ragazzo è appesa a un filo: il suo cuore potrebbe smettere di battere in qualsiasi momento. Precious teme di perdere Federico, mentre lei stessa si trova ad affrontare scelte difficili, combattuta tra le sue ambizioni e la sua nuova vita.
Da dove nasce la volontà di raccontare la storia di questi due ragazzi?
Volevo fare un film nella provincia dove sono nato, quella di Varese. Subito dopo il Covid, ho iniziato a fare ricerche in quel territorio. Parallelamente mi ero iniziato ad interessare alle relazioni degli adolescenti, a come sono cambiate dopo l’impatto della pandemia. L’idea era di fare un ritratto dei giovani europei invisibili che apparentemente non hanno una storia.
In Lonely la musica ha un ruolo centrale.
All’inizio non sapevo il film che direzione avrebbe preso o che la musica sarebbe stata un elemento importante, quasi l’unico che racconta gli stati d’animo dei due protagonisti. Questo aspetto è venuto a galla una volta che ho incontrato Federico, in una valle vicino Como, al confine con la Svizzera. Ho iniziato da questo paesino e dal loro carnevale – quello di Schignano – che appare nel film in maniera un po’ mistica e che rappresenta un rituale di passaggio per i ragazzi che compiono 18 anni. Ne viene scelto uno – per quell’anno era proprio Federico – che doveva affrontare una morte simbolica indossando una maschera sdraiato su un lettino portato fino dalla montagna, dove tutto poi viene bruciato. Un rituale che sancisce che i ragazzi sono diventati adulti. Il fuoco simboleggia il bruciare dell’infanzia.
E Precious com’è entrata nel racconto?
Federico ha la passione per la musica. I testi che sono nel film li ha scritti lui. È molto introverso, timido. Ho capito che lui l’unico modo che ha di esprimere come si sente è quello della parola e della musica. Così dopo averlo trovato, come ho fatto nel mio film precedente, Il mio corpo, in cui mettevo in parallelo due realtà, anche in questo caso volevo affiancargli qualcuno. Sono andato dall’altra parte della provincia di Como. Cercavo un altro adolescente invisibile. Mi hanno presentato Precious, nigeriana di origine ma super integrata. La prima cosa che le ho chiesto è stata: “Qual è il tuo sogno?”. Mi rispose che voleva diventare una cantante. Da lì ho fatto questa scommessa, perché il film, di fatto, è una sorta di esperimento, dato che loro due non si conoscevano.
Con il loro incontro cosa voleva catturare?
Prima li ho seguiti un po’ separatamente, filmando le loro vite separatamente, poi li ho fatti conoscere testimoniando quello che stava nascendo tra loro: processo creativo, amicizia, sentimento. L’idea del film era proprio riuscire a catturare la nascita di un sentimento forte tra due persone. La canzone che scrivono insieme è venuta da sola. Nel film la sequenza dura 2/3 minuti ma in realtà abbiamo trascorso un pomeriggio a filmarli, a osservarli, dandogli totale libertà. È così che è nata Lonely. Che in realtà non è una canzone perché non è stata finita. Questo perché i sogni da bambino che avevano rispetto a questa musica che poteva farli riuscire dalle loro reciproche situazioni si è scontrata con la realtà. Parlo dei problemi degli adulti con i quali fino a quel momento non avevano avuto a che fare. La realtà è purtroppo più cruda del sogno in sé.
È stato difficile per loro abituarsi alla telecamera?
Prima di girare ho passato tanto tempo con loro. Senza telecamera li ho vissuti entrambi. All’inizio non gli avevo detto che gli avrei fatto incontrare qualcuno. Per circa due mesi ho vissuto sul posto e vedevo tutti i giorni sia Federico che Precious. Prima delle riprese ho cercato di instaurare una relazione forte, di fiducia, tra di noi. Quando abbiamo iniziato a girare con la troupe, cercavamo di essere il più delicati possibile. All’inizio non capivano bene cosa stessi facendo, c’è stato un periodo di adattamento per fargli capire che non dovevano recitare ma semplicemente vivere le loro vite e che io ero lì per raccontare anche il loro quotidiano. È stato molto intenso e paradossalmente non hanno quasi avuto tempo di abituarsi.
Cosa ha capito della Generazione Z lavorando al documentario?
Girando il film mi sono accorto che i ragazzi di oggi hanno sempre meno relazioni intime. Hanno sempre più difficoltà a relazionarsi tra di loro. Quando ho chiesto a Federico e Precious di scrivere la canzone, all’inizio erano nel panico all’idea di doversi relazionare. È come se ci fosse sempre un muro. Il problema più grande della Generazione Z è che, tra telefonini e pandemia, sono sempre più isolati dal resto del mondo. E nel film l’idea di questo isolamento ho cercato di darla non filmando mai gli adulti. Mi sono un po’ reso conto di raccontarli come li vedono loro, cioè come dei fantasmi. Perché di fatto sono lasciati da soli e gli adulti e il loro mondo sono qualcosa di intangibile.
Rispetto a quando lei era adolescente cosa crede sia cambiato oggi?
Ho 39 anni e come Federico sono nato in provincia. Mi sono un po’ immedesimato in lui, è un po’ il mio alter ego in questo film. Abbiamo fatto un percorso simile. Anche io avevo un sogno, quello di fare film, e sono partito per poterlo coltivare. Credo che oggi sia cambiato il modo di comunicare. Quando io ero adolescente non c’era lo smartphone, non c’erano i social media. Il loro avvento, senza controllo, in cui ognuno può dire quello che vuole e che porta con sé un concetto di facilità – “Che me ne importa di studiare se posso fare l’influencer” – è un’idea completamente sbagliata di futuro. Forse Precious e Federico sono due eccezioni della loro categoria o generazione.
Quando io avevo la loro età c’era anche un modo diverso di uscire, paradossalmente di pensare alla sessualità, che oggi invece è accessibile. Un ragazzino di 12 anni può andare su Google e guardarsi tutti i video che vuole. Ma è una sessualità sbagliata perché quelli poi sono gli stessi ragazzi che non sanno parlare con le ragazze e che pensano che un rapporto sessuale sia quello che vedono in quei video piuttosto che su Instagram.
Dopo il passaggio ad Alice nella città sta pensando di proiettare il documentario nelle scuole?
È un film dedicato a quel pubblico che va visto e discusso con quel pubblico. Prima di incontrare Precious e Federico non avevo mai ascoltato il rap o la trap. Un genere che non conoscevo, non ascoltavo e che ho sempre denigrato. È qualcosa che ho iniziato ad apprezzare grazie a loro. Mi rendo conto che diventa un mezzo per comunicare. La trap è qualcosa che viene dallo stomaco, che serve a gridare un malessere piuttosto che un ostacolo. Adesso ho capito perché artisti come Madame spopolano. Riescono a toccare tutte le corde di cui questi adolescenti hanno bisogno.
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