Quante polpette al sugo riuscissero a mangiarsi in una sola sera Bud Spencer e Italo Zingarelli, lo storico produttore de Lo chiamavano Trinità e del suo sequel …continuavano a chiamarlo Trinità, non è chiaro. Spencer ricordava 30 (a testa), Hill 35. Qualcuno dice 80. Altri 150. Una volta, sul set, i due si divisero “due chili di pasta col burro e diciotto filetti di baccalà fritti”, ricorda sempre Spencer in una vecchia intervista. Hill, no. Lui ligio, disciplinato, “tedesco”, come lo definiscono i figli di Zingarelli nel bel documentario di Dario Marani Lui era Trinità, presentato ieri alla Festa del Cinema di Roma alla presenza della famiglia del produttore, e stasera su Rai3 alle 21.20.
Fagioli, sugo e ceffoni
Sobrio, Terence Hill: “Gli bastava una mela verde e stava a posto”. Ma quando il regista E.B. Clucher (pseudonimo di Enzo Barboni) gli chiese di divorare un’intera padellata di fagioli in una celebre scena di Trinità, lui non battè ciglio, fece due giorni di digiuno e poi se la mangiò tutta.
Del resto, come ricorda nel film il critico Mario Sesti, il cinema di Zingarelli, in particolare il cosiddetto “fagioli western”, è stato l’ultimo cinema italiano “che ha avuto fame”: un western forse meno nobile di quello di Sergio Leone – regolarmente, e con un certo scorno, battuto negli incassi da Trinità – ma capace di interpretare il sentimento del pubblico, che lo premiò trasformando i film di Spencer e Hill in un appuntamento immancabile da celebrare al cinema. Cinema pieni, pienissimi come oggi non è possibile immaginare: per Trinità, ricorda la moglie di Zingarelli, solo posti in piedi (letteralmente), con il pubblico che rientrava in sala per seconde e terze visioni.
“Lavorare con Zingarelli non era lavorare, ma stare insieme – lo ha ricordato ieri Hill, 84 anni, alla Casa del Cinema di Roma per assistere alla proiezione insieme ad altri ospiti del documentario, Amedeo Pagani, Barbara Alberti, Giovanna Ralli – Tra Bud Spencer e Italo, quei due facevano delle mangiate epocali. Erano così orgogliosi dei rispettivi primati. Fu un personaggio indimenticabile, era impossibile non volergli un gran bene”.
Zingarelli: boxe, Trinità e vino
Pioniere e grande produttore d’intuito, Zingarelli viene ricordato nel documentario attraverso la trinità dei suoi valori: la boxe, i film e il vino.
Nato a Lugo di Romagna il 15 gennaio 1930, tra la fine degli anni ’40 e i primi anni ’50 si era dedicato al pugilato con buoni risultati: fu proprio nella palestra romana nel quartiere Tiburtino, dove si allenava, che fu notato e scelto per diventare comparsa (al tempo erano quelli i vivai dove i produttori scovavano figuranti e stuntman) in uno dei tanti “peplum” girati in quegli anni a Cinecittà. Da lì in poi, una carriera rapida e fulminante: alla fine degli anni Cinquanta, a 28 anni, era già uno dei più giovani direttori di produzione attivi nel cinema italiano, e poteva vantare in curriculum l’esperienza sul set gigantesco, e già allora epico, di Ben Hur.
La sua carriera lo portò in Spagna, ad Almeria, dove in quel momento si concentravano le produzioni di western. Là, fondata la West Film con il socio Roberto Palaggi, cominciò a produrre film per il grande pubblico. Cinema commerciale, (da lui stesso a volte definito “orrendo”: sono i momenti più spassosi del documentario di Marani), dalle commedie di Franco Franchi e Ciccio Ingrassia ai musicarelli con il “ragazzo col ciuffo” Little Tony, da lui notato durante un’esibizione per la tv. Il suo carattere era gioviale, sì, ma impulsivo: celebre la volta in cui, di fronte a uno stuntman che si rifiutava di girare una scena di corrida con un toro, lo scansò e al grido di “e che ce vòle” affrontò la bestia finendo incornato. “Due buchi sotto le ascelle e tante fratture”, ricordano ancora oggi moglie e figli, che lo seguivano sui set.
A pagina 30 non muore nessuno
Il 1970 fu l’anno della svolta, quando Zingarelli fu l’unico produttore a scommettere (non proprio subito: lasciò il copione sulla scrivania a lungo, pare) sul soggetto che Enzo Barboni stava cercando di piazzare senza risultato ovunque, Lo chiamavano Trinità. Un western senza sangue, pieno di ironia, per famiglie: un film guardato con sospetto perché – dicevano tutti – “si arriva a pagina 30 e non muore nessuno”. Il capolinea fisiologico del genere western, che al tempo dominava le sale nelle sue declinazioni più violente e crudeli, e l’inizio di una carriera da coppia inossidabile per Hill e Spencer, che con Zingaretti aveva girato l’anno prima l’ottimo western Un esercito di cinque uomini, prima regia del produttore (la seconda e ultima fu Io sto con gli ippopotami del 1979), scritta da un trentenne Dario Argento.
La più grande soddisfazione fu il sequel di Trinità: … continuavano a chiamarlo Trinità è ancora oggi uno dei più grandi incassi del cinema italiano, 3,9 miliardi di lire dell’epoca e 14.979.000 spettatori. Un solo errore: quello di non aver prodotto il film d’esordio di Argento, L’uccello dalle piume di cristallo: “Mi disse no e ci rimasi malissimo – racconta il maestro dell’horror – eravamo amici, ma dopo quel rifiuto non l’ho più voluto incontrare”.
Fondata un’azienda vinicola nel Chianti, Zingarelli ha alternato alla produzione una carriera dietro le quinte dell’industria, come presidente dell’Anica prima e insegnante al Centro Sperimentale di Cinematografia poi. Morì a Roma il 28 aprile del 2000, lasciando un’importante traccia (di sugo, e non solo) nella storia.
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