In teoria Hollywoodgate è un film su commissione. Un documentario di propaganda, richiesto e “benedetto” da un comandante talebano, Malawi Mansour, per raccontare al mondo intero la supremazia delle proprie milizie nell’Afghanistan appena abbandonato dagli Stati Uniti. Nella pratica, il film del giornalista egiziano Ibrahim Nash’at, 33 anni, è uno straordinario documento che racconta – con immagini esclusive e un inedito accesso alla quotidianità dei militari – il dietro le quinte dell’ascesa dei talebani a Kabul, da milizia fondamentalista a regime militare, e le ricadute della loro inarrestabile espansione nel paese.
L’arrivo dei talebani nell’ex base Usa
Prodotto dall’americano Shane Boris, già premio Oscar per Navalny (la produttrice esecutiva è Sahara Karimi, la prima donna a capo dell’Afghan film market), e presentato fuori concorso a Venezia, Hollywoodgate nasce su iniziativa di Nash’at, incaricato da un comandante dell’aeronautica talebana di riprendere l’ingresso delle milizie nell’ex base americana di Hollywoodgate, a Kabul.
Le riprese sono proseguite per più di un anno, col giornalista al seguito dei talebani, in una situazione costantemente sul filo del rasoio: “Se le sue intenzioni sono cattive – dice nel film Mansour, rassicurando un sottoposto preoccupato dalla presenza del giornalista – morirà presto”. Un’esperienza estrema cui Nash’at ha avuto accesso non senza difficoltà: “I talebani mi hanno concesso la possibilità di riprenderli, ma non penso si siano mai fidati per davvero – spiega a THR Roma – io provengo da una famiglia molto religiosa, sono cresciuto in un ambiente di persone estremamente radicali. Mi sono interrogato fin da subito sulla forza delle ideologie, diventando prima giornalista e poi regista. La cosa interessante è che i talebani non mi hanno scelto per via del mio background religioso. Mi hanno voluto perché ero un regista. E nell’euforia della vittoria erano interessati soprattutto alla possibilità di raccontare il loro trionfo”.
Un atteggiamento cambiato nel corso del tempo, di pari passo con il consolidamento della presenza delle milizie nel paese: “Piano piano hanno cominciato a chiedermi dei permessi per le riprese: l’ultimo giorno ci ho messo tre giorni a procurarmene uno per girare. Gli facevo vedere il girato senza sonoro, ma ero relativamente tranquillo: ho ripreso ciò che ho visto, non gli ho mai mentito. Certo, in qualche caso se avessero visto il materiale non mi avrebbero permesso di conservarlo, come la sequenza in cui li riprendo mentre litigano fra loro. Ma di solito erano soddisfatti”.
Orgoglio e terrore
Punti di vista: ciò che soddisfa l’ideologia talebana, riempiendo d’orgoglio i militari, agghiaccia il pubblico non fondamentalista. Come quando un talebano cerca di spiegare, con una metafora disturbante, il ragionamento alla base dell’imposizione del burka alle donne: “Se levi la carta a una tavoletta di cioccolata, e la butti per terra, la mangeresti? No, perché è sporca”. Inevitabilmente, terminate le riprese, Nash’at ha dovuto lasciare il paese: “Me ne sono andato e ho interrotto i rapporti all’improvviso. Non credo che tornerò in Afghanistan”.
Eppure, nonostante le immagini disturbanti – donne prese a bastonate, fucili puntati alla tempia, delirio ideologico, truppe votate al suicidio – Hollywoodgate “non è un film sulla guerra, o sulle sue conseguenze. È un film sulle armi”. Quelle per colpire a distanza – fucili e mitragliatrici abbandonati nella base americana, strumenti bellici avanzati ora in mano ai talebani – e quella per colpire le coscienze: la propaganda.
“Questa è una storia sull’importanza dei media, che i talebani stanno cominciando a utilizzare come strumento di potere – spiega Shane Boris – ma soprattutto, come nei miei film precedenti, anche questa è una storia di ribellione contro l’autoritarismo che fa leva sull’ideologia per opprimere la gente. I tiranni sono tiranni, indipendentemente dal colore della loro pelle, dalla lingua, dalla religione o dall’etnia. E di fronte a ciò che fanno, noi paghiamo sempre un prezzo: sentirci in colpa perché siamo complici della distruzione del mondo, o sentirci impotenti perché non possiamo farci niente”.
Un film, un gesto politico
In questo senso, per Nash’at Hollywoodgate è più che un film: è un gesto politico. “Se ho avuto paura? Anche nei momenti peggiori ho sempre pensato che la mia sofferenza, in confronto a quella di un popolo uscito da 40 anni di guerra, continuamente oppresso e regolarmente deluso dai suoi ‘salvatori’, è nulla. Mi interessava offrire al popolo afghano una piattaforma per comunicare con il mondo. E non essere dimenticato in quel posto oscuro cui l’abbiamo relegato”.
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