Anatomia di una caduta. Ma anche anatomia di una relazione. Il film di Justine Triet – Palma d’oro a Cannes 76, vincitore assoluto agli Efa e adesso trionfatore ai Golden Globes come miglior non in lingua inglese, dove ha avuto la meglio su Io capitano di Matteo Garrone) – è un’analisi minuziosa e spietata di un matrimonio arrivato a un punto di non ritorno. Quello tra la tedesca Sandra (Sandra Hüller) e il francese Samuel (Samuel Theis), scrittrice di successo lei, professore con una carriera claudicante nell’editoria lui. Vivono in una zona neutra, in uno chalet sulle Alpi, insieme al figlio Daniel (Milo Machado Graner), rimasto cieco dopo un’incidente per il quale il padre si sente responsabile.
Nella prima scena del film Sandra sta concedendo un’intervista a una giornalista, ma le due donne non riescono a parlare tanto è forte la musica che arriva dal piano di sopra, una versione strumentale di P.I.M.P. di 50 Cent (nell’idea originale sarebbe dovuta essere Jolene di Dolly Parton), brano tutt’altro che femminista messo a tutto volume da Samuel. Poco dopo, al ritorno dalla solita passeggiata mattutina di Daniel con il cane di famiglia, il ragazzo inciampa nel corpo senza vita del padre nello spiazzo antistante l’entrata della loro casa.
Un incidente, un suicidio o un omicidio? Domande alle quali cerca di rispondere un’autopsia inconcludente prima e un giudice poi. Perché per quella morte si allunga il velo della colpevolezza su Sandra, rea – prima di tutto – di essere una donna fredda e di successo.
Anatomia di una caduta: colpevole di essere donna
“Voglio che tu sappia una cosa: non sono un mostro”, confida la scrittrice al figlio, testimone inaffidabile – in cui s’insinua il dubbio – chiamato a parlare in aula e costretto a scoprire aspetti intimi della relazione dei suoi genitori durante gli interrogatori che vedono imputata la madre. Ma tutti, dall’avvocato dell’accusa all’opinione pubblica, sono certi della sua colpevolezza. In quell’aula di tribunale Sandra è messa sotto torchio, suggerisce Justine Triet, in quanto donna che ha sovvertito ogni schema sociale.
È lei nella coppia ad essere riuscita a costruirsi una carriera professionalmente solida – attingendo da eventi familiari – mentre il marito, da casa, si occupava dell’educazione del figlio senza trovare il tempo per concentrarsi sul lavoro. Un capovolgimento che a parole è alla base della modernità con la quale ci riempiamo la bocca ma che, a conti fatti, è una rarità ancora vista con sospetto e incredulità. Una donna libera, che sa quello che vuole e ha il talento per ottenerlo senza cercare di compiacere nessuno. Come osa? Quel disequilibrio finisce per minare le fondamenta del matrimonio a causa di una frustrazione che monta sempre di più in Samuel fino a un furibondo scontro usato contro di lei in aula.
Una società patriarcale
Perché su quel banco degli imputati non c’è una presunta assassina, ma una donna la cui affermazione in una società ancora profondamente patriarcale inorridisce. Scritto da Triet insieme al suo compagno, Arthur Harari, Anatomia di una caduta è una grande metafora sulle disuguaglianze di genere camuffata da legal drama. La scelta di raccontare la relazione dei due protagonisti attraverso la macchina giudiziaria serve alla regista per filtrarla grazie ad uno sguardo esterno. Uno sguardo, quello legale, che dovrebbe essere il più vicino possibile alla verità dei fatti ma, come ci mostra il film, è costantemente vittima di interferenze dettate da condizionamenti mentali sedimentati nel corso di secoli.
Justine Triet ci racconta la caduta di una coppia. Ma forse più di tutto ci racconta la caduta dell’uomo dal gradino più alto del podio della società. Senza più punti di riferimento, appigli, sicurezze. Quel corpo a terra diventa il simbolo di un cambiamento in atto, faticoso e pieno di pericoli, per poter dare vita a una vera democratizzazione di genere. Non solo nella coppia ma in ogni ambito, privato e professionale.
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