Un consiglio, prima e sopra ogni cosa. Se vorrete andare in sala per Rossosperanza – e ve lo consigliamo, caldamente – fatelo senza guardare trailer o leggere trame. Resistete alla curiosità, forse persino di leggere questo pezzo, salvatelo tra i preferiti e tornate dopo averlo visto.
Ne varrà la pena: conservandovi liberi da anticipazioni potrete sentire il genere essere ingranaggio perfetto e oliato di un linguaggio d’autore, percepirete l’angoscia andare sotto pelle mentre vi sentirete a disagio a empatizzare per chi, quattro ragazzi spezzati (Zena, Marzia, Alfonso e Adriano), negli occhi e nei gesti ha una sensibilità priva di pietà (ma piena di pietosa), una dolcezza feroce. Il segreto di questo film di Annarita Zambrano che arriva dopo il bello e austero Dopo la guerra, è proprio nel sedurti senza volerlo fare, nell’offrirti in sacrificio corpi e anime rotte avvolte in una bellezza inquieta e che si dimenano tra una tragedia immanente (per lo spettatore, per i protagonisti è già avvenuta) e un presente grottesco fatto di cure tardive e beckettiane nella loro buffa goffaggine.
“Per me – racconta la regista Annarita Zambrano -, non voglio essere ipocrita, il cinema è una psicanalisi, come per molti altri autori, è un modo per raccontare e superare le mie ferite, sublimare il mio odio totale per una classe sociale che è la mia, per persone che ho avuto a scuola, al liceo Giulio Cesare di Roma, che mi somigliavano troppo perché sopportassi che fossero com’erano. Mi serviva un film nero, una black comedy, per raccontare questo dolore, questo sangue, per smettere di rosicare e agire, fosse solo pure sul set. Anni fa feci un corto, Dans la Cour des Grands (2011) e oggi, rivedendolo, mi sento in difficoltà, mi sorprende quanto frontalmente raccontassi la violenza, era terribile, ora capisco la gente che se ne andava dalla sala. Ma questo film parte anche da lì, da quell’orrore raccontato in modo così inutilmente serio. Ma esiste, quella violenza. Solo che io sono cresciuta e posso raccontarla in altro modo”.
Ci riesce, con il conforto di un talento e di uno sguardo che unisce un’animazione dal tratto rossissimo e gentile (di Alessandro Rak e Dario Sansone, figli di quella Mad Entertainment che è anche in produzione e si dimostra società coraggiosa e illuminata) fino ai rewind forward alla Haneke con cui la giovane protagonista (Margherita Morellini, un po’ una Winona Ryder di Ragazze interrotte, ma in sottrazione), carismatica e bellissima quanto più cerca di nasconderlo, cerca di riparare a ogni torto a modo suo. Con uno scratch su un vinile (il tipico gesto da dj, molto anni ’90, di muovere in senso contrario il disco in lettura, quasi a graffiarlo) modifica la realtà, anche se per pochi soldi. Ovviamente nel modo più cupo e definitivo possibile.
Rossosperanza
Cast: Margherita Morcellini, Leonardo Giuliani, Ludovica Rubino, Elia Nuzzolo, Luca Varone, Andrea Sartoretti, Daniela Marra, Eliana Miglio, Antonio Zavatteri, Rolando Ravello
Regista: Annerita Zambrano
Sceneggiatori: Annarita Zambrano
Durata: 87 minuti
“C’è dentro il mio liceo, quei compagni di scuola con cui ho fatto recentemente una cena di classe a Via Tagliamento a Roma, scoprendo che non mi sono mancati per niente: sempre uguali a se stessi, che abitano a due passi dalla loro scuola mentre io sono vent’anni che sono a Parigi. Come se ancora amassero quell’istituzione vecchia, arcaica, fascista (o almeno lo era allora), mentre io odiavo, di un odio viscerale e di classe sociale – pure se era la mia, ripeto – quell’edificio, i suoi professori, quei ragazzi e ragazze a cui tutto sembrava normale: i suicidi, le violenze sessuali, le ronde di una certa Roma Nord in cui si picchiavano le zecche o chi era più debole. Tutto mi stava stretto, come ai miei protagonisti: ecco perché nel casting ho voluto ragazzi e ragazze che mi fossero affini nell’animo, non credo alla teoria dell’attore da riempire, volevo giovani uomini e donne che mi somigliassero, che ci fosse una eco tra me e loro. Hanno dentro qualcosa di bello, speciale e dolente”. Questa rabbia è lucida e terribilmente ironica perché Zambrano sa dipingere lo squallore vanesio, lussuoso e meschino di quella Roma con una grazia priva di eufemismi, in tutta la sua ridicola realtà. E qui sono bravissimi gli adulti, un Andrea Sartoretti uno e trino che incarna, con metamorfosi morfologiche e vocali, quell’indifferenza ipocrita e impietosa, quella vacuità che si crede elegante, fino al parvenu che ha bisogno di uno zoo per sentirsi cool. Così come Marra, Giglio e uno Zavatteri estremo. Tanto per capire chi siano i veri carnefici, o almeno i mandanti, dei delitti raccontati in Rossosperanza. Sono una classe sociale, un pezzo di città, una classe dirigente senza orizzonti morali.
Rossosperanza, la trama
Parliamo di Roma Nord “ma potrebbe essere qualsiasi altra roccaforte borghese di altre capitali, parliamo dei figli di classi dirigenti che riproducono se stesse, le élite che si trasmettono privilegi e danaro per linea dinastica e familiare, con una violenza mostruosa, e succede ovunque. Perché i miei compagni sapevano bene chi sarebbero diventati. E lo sono diventati, nei film a volte possono morire, posso ucciderli, ma nella vita vera rimangono vivi, vegeti e comandano sulle nostre teste, sulla mia”. Questa rabbia giovane, bellocchiana e truffautiana insieme, fa vibrare la regista così come il suo film, ambientato in una villa in cui vanno recuperati giovani borghesi deviati, autori da minorenni di azioni non consone al convivere sociale (usiamo un eufemismo per non rovinarvi la sorpresa) e da redimere, correggere. Un non luogo bellissimo e asettico, quasi complementare a quell’istituto montano e più “notturno” che vedevamo in un film che ha qualche parentela con questo, l’ottimo I figli della notte di Andrea De Sica.
Lì venivano però mandati a farsi le ossa e incontravano il buio, la violenza, qui provano a guarire da entrambi. Perché nelle loro famiglie, nei loro amici, nelle loro case crea orrore di loro non ciò che hanno fatto, ma ciò che sono, quelle loro imperfezioni – così le considerano – che li rendono diversi.
Sono dettagli, che può riconoscere solo chi ha qualcosa di spezzato dentro come loro. Una cicatrice congenita sopra il labbro, la balbuzie, una fluidità sessuale e sensuale che in una Roma nord fascista e omofobia non può abitare, essere una giovane arrampicatrice sociale cosciente delle crepe della propria classe e decisa a sfruttarle per un posto a Non è la Rai – a un certo punto Boncompagni non viene nominato, ma citato quasi morfologicamente – capendo fin dove si può spingere con piglio da antropologa.
Ognuno di loro è pronto a liberare una bestia – metaforica ma anche no – che in qualche modo faccia giustizia. Perché una delle grandi qualità di questo film e di questa cineasta è portarti a una profonda assonanza con i protagonisti, quasi imbarazzante, di cui non ti liberi neanche quando dovresti. Viene da sorridere quando con passione Annerita Zambrano confessa riferimenti più letterari che cinematografici, “dai romanzi di Teresa Ciabatti a quelli di Alessandro Piperno fino a Bret Easton Ellis, il mio idolo, a cui dedico il film, lui descrive quell’odio di classe come un dolore profondo dell’esistenza, necessario probabilmente anche alla creazione e alla creatività. Se non avessi toccato quella violenza, non solo fisica, ma verbale – quella che mi faceva apostrofare come puttanella se mi mettevo lo smalto o avevo un fidanzato – e morale, non sarei qui. A raccontarla, a essermi creata un mondo di narrazione anche complesso”.
E quindi alla fine Pietro Castellitto a definire ironicamente Roma Nord come un Vietnam, tutti questi torti non li aveva. “Non esageriamo, non la definirei così, ma sì è una guerra. Certo, c’è di peggio, ma io ricordo chi si è impiccato perché non riusciva a vivere quel mondo fatto di divise tutte uguali, aspettative estetiche altissime, razzismo e cattiveria. E magari se hai 12 o 15 anni non hai la capacità intellettuale di difenderti, i tuoi genitori non riescono a capirti perché in quell’età quale padre o madre ci riescono? E a volte, come nel caso di molti di loro e dei personaggi dei miei film, proprio i genitori rappresentano ciò che odi, che disprezzi, che vorresti distruggere. Insomma non vogliamo chiamarlo Vietnam ma come me “riproduzione violenta delle élite?” o Roma Nord, o Upper East Side a New York o ancora Sedicesimo Arrondissement a Parigi? Questo sono, luoghi di prevaricazioni, di guerra socioculturale se vuoi resistere all’omologazione, di violenza e dolore. E ti assicuro, si somigliano tutti”. Peraltro, Leonardo Giuliani, che ha una naturale capacità di occupare la scena, prendendosela con uno sguardo o anche solo indossando una giacca, qualche somiglianza con Pietro Castellitto ce l’ha pure.
Cosa è restato degli anni ’90
Zambrano poi ricaccia questa storia nei terribili anni ’90, degli anni ’80 con molta meno gioia e ottimismo e molto più odio e nichilismo. “È il decennio della caduta degli dei, di Mani Pulite, del Titanic della politica e del potere che affonda mentre una mediocre orchestrina suona, è il decennio in cui Raul Gardini, il simbolo di un lusso assoluto e invidiatissimo e di un potere senza regole si spara in testa, i ’90 sono la fine di un mondo, sono il vaso di Pandora che si apre per poco e fa intravedere l’inferno. Per poi tornare a riempirsi. Sono gli anni che ho vissuto, opulenti e decadenti. Sono anni popolati da zombie, che sono morti e non lo sanno. Sono gli anni in cui cominciamo a scoprire gli orrori del clero sui bambini, che qui mostro fugacemente, in cui scopriamo vari abusi seriali, in cui era normale sedurre una minorenne. Sono anni che ho paura stiano tornando, a giudicare da come viene attaccato il movimento MeToo, stiamoci attenti. In quel decennio la borghesia era omofoba, ora abbiamo l’attacco feroce al gender, allora c’erano le ronde, oggi Forza Nuova. Navighiamo in acque torve, in cui qualcuno vuole toglierci libertà e diritti acquisiti. E ha il potere di farlo”. E infatti, fuori dalla proiezione del pubblico trovi venti e venticinquenni che fanno fatica a credere che non si parli dell’attualità, che si chiedono se hanno davvero visto quella banconota da 50.000 lire di cui loro non ricordano l’esistenza. “Mi risuona oggi lo stesso fascismo emotivo di allora, la tendenza a normalizzare tutto, a ripulire un linguaggio dagli estremismi. Allora ci si indignava a chiamare l’estrema destra fascista ed ecco dove siamo arrivati. L’Italia ama l’oblio, è campionessa olimpica di rimozione”.
Rossosperanza, la recensione
Ma non è un pamphlet politico, anche se Rossosperanza potrebbe essere un bel nome per un partito, è un affresco sociale, emozionale, generazionale. È lo sguardo di chi si ribella al nichilismo collettivo, all’edonismo un tanto al chilo, gretto, fino alle estreme conseguenze. È l’opera che una donna piena di sensibilità etica ed estetica dedica alla bellezza violata, a chi vuol perdersi in un buco nero perché gli hanno strappato l’anima. Di chi rimane puro persino quando si trasforma in carnefice (Elia Nuzzolo è un perfetto angelo caduto). O di chi si vendica svuotando quell’anima, di fronte a una gabbia in cui un animale bellissimo e fiero, proprio come lei, viene imprigionato per essere esibito. Proprio come lei. E osserva l’inesorabile. Che brava Ludovica Rubino, che ha qualcosa della Nicoletta Romanoff di Ricordati di me e che sa meglio di tutti incarnare quegli anni, quel dolore, quell’estraneità violenta e violentata.
Il tutto avviene con la scelta di una musica che è scrittura di cinema e di vita. “Quel Boys, Boys, Boys, ballata da un Boy, la tetta di fuori come valore, mondo, pietra angolare di una civiltà, emblema di un corpo esibito e alla mercé di tutti di cui si riappopria Alfonso, perché Sabrina è anche sua esattamente come Madonna è icona gay. Lullaby dei Cure, che devo dire, è la canzone definitiva, assoluta, totale, è i primi tre minuti di Rossosperanza, in cui c’è tutto il film. Film che è un incubo nero, un po’ rosso, pure bianco. In fondo Orson Welles diceva che tutta la tua opera deve stare nei primi cinque minuti. Io ci ho provato, grazie ai Cure che ti portano naturalmente in un incubo”. Che annega nella rabbia e nella follia, le uniche due strade per uscire da quel conformismo ricco sfondato. Da quella giostra di corpi senza vita e senza speranze.
L’unica è annegarli nell’acqua che è elemento primario di questo film, che non è il luogo che dovrebbe cullare questi giovanissimi figli, ma l’antro più oscuro in cui riconoscersi. Sia una piscina, una grotta marina “che ho trovato io vicino a Sperlonga, nel nulla, ci si arrivava solo col motoscafo: ho portato io la scenografa dentro a quell’anfratto, trascinandola a nuoto, mentre lei era in una ciambella” -, quella sporcata da un caffè (s)corretto o quella che servirebbe per spegnere un fuoco purificatore.
Si è presa la briga, Annerita Zambrano, di fare cose proibite al cinema italiano. Prendere i diritti di un capolavoro musicale senza tempo, Lullaby dei The Cure appunto, recitare con una tigre, girare in una vera grotta in mezzo al mare. È pronta per un kolossal. “Magari, sai quanti soldi danno a una donna per fare un film in Italia? A me per esempio per il prossimo servirebbero 5 milioni, secondo te sarà facile trovarli?”. Ovviamente no. Ma ne varrà la pena visto che pur nel dovuto riserbo si lascia scappare che il nuovo film vuole essere “petriano, un’opera grottesca che parlerà di genetica politica. Il mio Todo Modo“. Elio Petri, che a pensarci bene avrebbe apprezzato Rossosperanza.
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